
SU DI ME
Mi chiamo Deborah Carraro, tutta la mia vita è leggere. Qui troverai le interviste a scrittori/ scrittrici!!
I libri in mansarda è un blog che nasce con un obiettivo preciso: diffondere la cultura.
Intervista a Christian Malvicini che racconta il suo libro “All’ombra della Grande Quercia

Christian Malvicini sin da piccolo è affascinato dalla fotografia, ma da adulto capisce che la scrittura è l’unico modo per esprimersi. Il suo primo romanzo autopubblicato è “Emozioni- School Romance Adrenaline”. “All’ombra della Grande Quercia” è un romanzo contemporaneo, che si può definire di formazione, con un risvolto introspettivo e piena di pensieri.
Ma adesso andiamo a scoprire qualcosa di più, su questo libro e su Christian Malvicini!!
Come è nata l’idea di scrivere “All’ombra della Grande Quercia”?
La forma embrionale della storia è nata diversi anni fa. Non c’era ancora Guido con la sua storia ma c’era già la figura della Grande Quercia. La storia poi è rimasta nel cassetto, finché non ho superato i miei ostacoli riguardo a quello che volevo raccontare. Una volta superata la paura di essere giudicato per ciò che avevo intenzione di scrivere, è stata solo necessario lavorarci per mettere giù le pagine.
I protagonisti del tuo libro sono tre ragazzi, Saverio Colombo, Guido Archetti e Beatrice Boneschi. Ognuno di loro ha una vita diversa, ma un giorno le loro strade si sono unite. Che cosa è successo? Ci puoi descrivere con 3 aggettivi questi tre ragazzi?
Le loro vite sono completamente diverse ma, nonostante ciò, tutti e tre vivono delle difficoltà, chi più e chi meno. La storia inizia a seguito di un incidente stradale, che farà incrociare le strade di questi tre personaggi. Se dovessi associare delle parole ai tre personaggi, direi che Saverio è “coscienzioso”, Beatrice è “empatica” e Guido è un “disastro”.
La Grande Quercia rappresenta l’elemento centrale della storia, in cui ogni personaggio si ritrova a pensare ai suoi problemi, ad un passato doloroso alle spalle, che rischia di compromettere anche il futuro. Che ruolo ha la grande quercia?
La Grande Quercia rappresenta il “quarto” protagonista della storia, ma in realtà è sempre stato il vero protagonista.
Beatrice Boneschi si ritrova a dover superare il tradimento del suo ragazzo, come si può superare un tradimento?
Accettare il passato. Perdonare ma soprattutto perdonarsi per tutto quello che si è fatto e soprattutto per quello che non si è fatto.
Il personaggio di Guido è rimasto incatenato in un vortice, che lo ha portato a compiere delle scelte, finendo per annullarsi completamente. Guido cerca di soffocare il suo dolore nell’alcool e nelle sigarette, convinto che distruggersi sia l’unica soluzione. Come mai Guido si ritrova incatenato in questo vortice?
A volte, la vita ti spinge in una direzione. Per quanto difficile possa essere, però, quello che conta è “come” l’affrontiamo e non “cosa”. Evidentemente, Guido ha preso una strada piena di difficoltà e si è ritrovato in una lavatrice emotiva che gli ha compromesso l’esistenza.
Che cosa rappresenta l’incidente per Guido?
Si potrebbe definire in diversi modi, credo. A me piace chiamarlo “Destino”, ma questa parola è soggettiva per ognuno di noi. Quindi potremmo aprire un’interessante discussione solo su questo argomento.
Ogni capitolo è caratterizzato da pensieri profondi, diretti che permettono al lettore di effettuare un’analisi introspettiva. Come mai hai deciso di inserire questo aspetto?
Perché questa storia è innanzitutto un viaggio introspettivo. Lo è stato per me e quindi le reputavo necessario.
Ti chiedo di riassumere il tuo libro con 4 parole chiave.
Rinascita. Introspezione. Speranza.
Quanto tempo hai impiegato per scrivere il libro?
La prima stesura nella sua forma embrionale risale a diversi anni fa. Poi nel mese di ottobre 2021 ho deciso di riprenderlo in mano e finirlo. Ci sono voluti circa sei mesi per terminarlo.
Quale è il personaggio a cui sei più affezionato? C’è un personaggio che ti rappresenta?
Sono affezionato a tutti e tre, perché ho cercato di mettere un po’ di me in tutti loro. Quello che mi rappresenta di più però è Guido Archetti.
Chi è Christian? Raccontaci un po’ di te è come nasce la passione per la scrittura?
Si può dire che una volta Christian era Guido? Ahr Ahr Ahr! La passione per la scrittura è nata per gioco ai tempi delle superiori. Con il passare degli anni però poi è diventata una importante forma di espressione per me, un modo anche per sfogarmi ed esorcizzare i problemi della vita.
Pensi che la fotografia e la scrittura, abbiano qualcosa in comune?
Perché sono importanti entrambe nella mia vita. Dopo la Quercia, la fotografia è la “quinta” protagonista della storia. Non credo esisterebbe questa storia senza la fotografia. Come non esisterebbe Christian Malvicini senza la scrittura e senza la fotografia.
Stai scrivendo un altro libro? Se si, ci puoi anticipare qualcosa?
In questo momento sto lavorando ad un paio di idee. Una di queste ha come protagonista sempre un elemento della natura: l’acqua! L’idea di partenza è questa: “Cosa potrebbe accadrebbe ad una persona se venisse scambiata per qualcun altro?”
Una bellissima idea, complimenti!! Buon lavoro Christian.
Adesso ti chiedo di riportare un pezzo a cui sei più affezionato del tuo libro, e di spiegarci perchè.
Il destino ti aspetta sulla strada che avevi scelto per evitarlo.
Credo semplicemente, che sia la frase che meglio rappresenti il libro, e un po’ anche la mia vita.
Grazie Christian, per aver raccontato il tuo libro che permette al lettore di effettuare un’analisi introspettiva.
Grazie a tutte/i coloro che hanno letto la nostra bellissima intervista.
Colgo l’occasione per augurarvi i più sinceri auguri di Buon Natale e di Buone Feste da Deborah, del blog “I libri in mansarda”. Alla prossima!!
Intervista a Sofia Lamberti che racconta il suo libro “Nero pece”

Sofia Lamberti ha vinto il concorso “Di testa mia” e la borsa di studio “Interculturale”, ed è autrice di testi musicali come Morena e L’Italia in campo. Il 15 Maggio di quest’anno è uscito il suo primo romanzo “Nero pece”, con la casa editrice Gruppo Albatros Il Filo. In questo libro, protagonisti sono dei ragazzi che per vari motivi, hanno commesso dei reati e devono scontare la pena nel Nero Pece. Il Nero Pece è uno dei principali carceri minorili italiani.
Sofia Lamberti racconta una storia profonda, toccante, di questi ragazzi che hanno commesso dei reati per alcune circostanze fortuite e ingiuste della vita, o anche per superficialità, e si ritrovano a dover scontare la propria pena nel Nero Pece. Sofia tratta molti temi importanti, come la giustizia, le condizioni dei carceri minorili, il rapporto genitori/figli, i primi amori e la sociologia della devianza. La devianza è un atto, un comportamento di una persona che danneggia un’altro individuo, o più semplicemente non rispetta le norme vigenti in uno Stato e viene sanzionato. La devianza è uno dei campi della sociologia che presente molte difficoltà, soprattutto nella fase della ricerca scientifica, perchè i reati “ufficiali” sono solo una piccola porzione dei reati effettivamente commessi, quindi i dati che possiamo analizzare sono approssimativi e non rappresentano con certezza il fenomeno.
Con Sofia Lamberti abbiamo parlato del suo libro “Nero pece”, ma abbiamo anche provato a spiegare la parola “libertà”. Secondo voi, cosa significa?
Il cancello del Nero Pece, rappresenta l’accesso a una nuova vita… in tutti i sensi!!
La mia idea può essere scontata, ma penso che tutto rimandi alle modalità in cui una persona viene educata e la società ha il compito di attivarsi e di agire, qualora lo reputi necessario.
In poche parole… il bisogno di essere adolescenti.
E’ molto importante conoscere prima di giudicare. Questo concetto attraversa tutto il romanzo, fino all’ultimo capitolo.
Nero
Luce
Adolescenza e
Resilienza.
Il romanzo, un’intera estate… tutte le altre stesure, un po’ di più!!
Penso che dipenda dall’importanza che aveva la “prima possibilità”. Talvolta, una seconda possibilità può essere data, altre volte, non credo sia necessario.
Qualche idea bolle in pentola!! Ritagliarmi spazi per scrivere al momento, però, è molto difficile, quindi per adesso procedo più lentamente.
Intervista a Lorenzo Zucchi, uno scrittore a cui piace cambiare sempre…

Lorenzo Zucchi scrive per passione sul sito Milano Città Stato, è speaker radiofonico e nel 2020 ha esordito pubblicando “Quante bandiere hai?” per Edizioni Underground, una raccolta di racconti di viaggio. In seguito ha pubblicato il secondo libro di viaggi, “Bandiere per tutti” e nel gennaio 2023 ha concluso la trilogia dedicata ai racconti di viaggio con “Giochi senza bandiere”.
A Lorenzo Zucchi piace sempre cambiare genere e stile, infatti nel giugno 2023 ha pubblicato su Amazon il romanzo Young adult “La stagione dei grandi amori”, scritto a quattro mani insieme a Gaia Valeria Patierno.
Ma oggi, parleremo nello specifico del suo ultimo libro, uscito a settembre 2023 dedicato a suo nonno, dal titolo “Quel che resta della memoria”.
“Quel che resta della memoria” racconta la storia vera del nonno di Zucchi, una storia ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale, una storia di deportazione, che riesca a toccare il cuore di tutti i lettori, soprattuto dei più giovani.
Ma adesso andiamo subito a conoscere Lorenzo Zucchi e i suoi libri!!
Sei un grande appassionato di viaggi, infatti i tuoi primi libri sono dedicati ai viaggi: “Bandiere per tutti”, “Quante bandiere hai” e per ultimo “Giochi senza bandiere”.
Che cosa rappresenta per te viaggiare?
Che cosa ti ha spinto a scrivere questa trilogia sui viaggi?
Viaggiare è una necessità, una forma di vita indispensabile. Da anni utilizzo le mie risorse economiche per quello: tutto il resto viene dopo.
Ho proposto il concept delle raccolte di racconti di viaggio alla casa editrice indipendente milanese Edizioni Underground? per raccontare la mia esperienza, nel tentativo di convincere altre persone a innamorarsi del viaggio.
‘Quante bandiere hai?’ copre le capitali europee e i paesi del Mediterraneo, ‘Bandiere per tutti’ i paesi extraeuropei: erano un unico tomo, il mio esordio, che poi è stato diviso per ragioni editoriali.
Da lì il passo per scrivere il terzo, coprendo le regioni italiane ed europee, è stato abbastanza semplice. E già che c’ero, ho voluto impostare i racconti di viaggio come una sorta di esperimento: alcuni sono diari di viaggio alla pari dei primi due volumi, altri sono mini-romanzi con venature di diversi stili, per preparare il terreno alle mie sperimentazioni successive.
E nel farlo non mi interessava replicare sempre gli stessi stilemi, come capita a molti scrittori affermati o meno. Anzi, doveva essere una sfida, un uscire dalla comfort zone del racconto di viaggio, che peraltro continuo comunque a portare avanti, con un progetto di racconto a puntate pubblicato ogni venerdì fino a febbraio su Ufficistampanazionali.it.
Scrivo narrativa classica, di fatto, ma mi piace dare venature di genere ai miei libri.
‘La stagione dei grandi amori’ può essere definito young adult, LGBT+, romance o romanzo di formazione. La considero la mia esperienza più riuscita perché lavorare con Gaia che veniva già dal romanzo ha apportato alla mia penna quei tagli indispensabili per poter passare dalla narrativa se vuoi disordinata del racconto a quella più classicamente impostata del romanzo. Quindi, nel mio caso, scrivere a 4 mani mi ha di fatto migliorato, anche se è un’esperienza stressante perché per mesi ci si scambiano decine di vocali al giorno. Ma ne vale la pena!
Il messaggio principale è preservare la memoria di quello che è successo attraverso la realtà romanzata di un libro accessibile a tutti, in particolare agli studenti della scuola media inferiore, sia per stile che per contenuti.
Vogliamo volare, ma non lo sappiamo fare. Siamo come dei poveri polli condannati a essere uccisi da qualcosa o da qualcuno, prima o poi. Ma fino ad allora possiamo scegliere sempre di amare.”
Che cosa rappresentano per te l’amore, la vita e la morte?
Amore è tutto quello che ci fa appassionare alla quotidianità. La vita è un film da portare avanti nel miglior modo possibile. La morte è una situazione necessaria da tenere in conto.
Mi sono ispirato ai film di Hollywood sull’Olocausto, che iniziano e finiscono sempre nel presente, ma anche la vita reale ha contribuito, dato che mia figlia ha veramente fatto una ricerca sul suo bisnonno, attraverso la quale ha appreso molte lezioni sul significato della vita: che non bisogna mai dare nulla per scontato, che il male può annidarsi ovunque e che l’amore è la chiave per vivere in maniera razionale.
Memoria, Scuole Medie, Diario, Seconda Guerra Mondiale.
Lavoravano a una fabbrica tessile che raggiungevano scortati ogni mattina attraverso un percorso nei boschi (Wuppertal è una città collinare). Il loro turno era di dieci ore al telaio. In caserma avevano accesso a un rancio minimo e anche i marchi che guadagnavano tramite il lavoro forzato non bastavano per comprare altro che misere quantità di pane. Mio nonno è stato uno degli IMI (internati militari italiani) fatti prigionieri dopo l’Armistizio. E’ tornato a casa a guerra finita, salvandosi per una serie di circostanze fortunate descritte nel libro.
E’ una componente essenziale della quotidianità, vive con noi e ci forma.
Un cinquantenne ventenne che si diverte a fare cose che gli piacciono, come i podcast di viaggio per la web radio milanese Radio 20158 o quelli sull’Italia del format radiofonico di Alessandro Fizzotti ‘Fizz in the Morning’. La scrittura al momento è la mia massima ispirazione, un tempo avevo la fotografia minimalista, ora sono sommerso da trame che mi nascono mentre ascolto la gente parlare in strada. Un dono, forse, ma penso che debba restare una passione; non avrei la costanza che ho al momento, paradossalmente, se scrivere diventasse la mia professione principale.
I primi due libri di viaggio avevano racconti scritti nel corso anni precedenti che hanno costituito il mio embrione narrativo, quindi è difficile valutare. Giochi senza bandiere è stato scritto nell’estate del 2020, con alcuni episodi di viaggi successivi fatti appositamente nel 2021 per arricchire il libro. Quel che resta della memoria l’ho finito tra gennaio e febbraio di quest’anno, ma è molto breve.
Negli ultimi mesi, dopo una lunga sosta, ne ho iniziati un paio. Però ho diversi altri titoli già pronti: un noir, uno psicologico, una saga famigliare ambientata nel lockdown.
E un romanzo con venature thriller è in uscita nel 2024. Ricordi quando mi hai chiesto del libro a cui sono più affezionato? Ecco, è quello. Ti anticipo che i nomi dei personaggi sono dei soprannomi che avevano da bambini, tutti inventati da mia figlia, come sempre una delle mie ispirazioni principali.
Da Giochi senza Bandiere, racconto ‘Valentine abita a Monplaisir’.
In questo racconto di viaggio, nella finzione, scrivo un racconto d’amore per un concorso, cosa che in realtà non faccio mai. Ho recuperato un mio testo degli anni ’90, riadattato. Ogni mattone serve a costruire una casa, anche quelle strampalate.
Yvonne mi ha lasciato. Era un anno, ormai. Non provo dolore, nemmeno troppa tristezza, però sento comunque sparire il suolo sotto di me. Vuoto assoluto, eccomi qua. Improvvisamente vengono meno schemi assodati, certezze deboli ma note. È come se mi avessero resettato dicendomi di ricominciare da capo, però senza avvertirmi; la sorpresa come sempre disorienta. Il caffè oggi è solo strumento di nervosismo, non colgo il suo sapore ambiguo che dà il via alla giornata; quasi disgusta, addirittura, coronamento fuori posto a un piccolo nirvana scomparso. Violento il telecomando della televisione cercando una risposta in diretta, una soluzione subitanea a un problema che non so come affrontare. José mi ha lasciato un promemoria dato che non vado in università. Perso per perso, mi getto a capofitto nella lista delle commissioni, inventandomi storie strane, simulando indifferenza. Non funziona. Corro, corro disperatamente, con la mia tuta blu, incurante dei semafori e dei clacson, maledicendo il pallido sole che mi toglie anche la malinconia degli sguardi fissi. Il centro di Lyon, la Presqu’Ȋle, è un trapianto di architetture lussuose parigine; amo le sue prospettive monumentali, i suoi innumerevoli scorci panoramici. Ma oggi nemmeno Place Colbert è magnanima con me: la chiesa lassù mi guarda severa, ammonendomi come se avessi sbagliato, come se la fragilità del mio mondo in fondo dipendesse proprio da me. Perdiamo troppo tempo senza capirci e in quel lasso di tempo rischiamo di perdere anche gli affetti. Non ho mai scavato in Yvonne. La mia superficialità mi ha sconfitto senza farmi porre nemmeno il problema. Ma per quale recondito motivo dobbiamo per forza di cose appoggiare la nostra esistenza a un’altra, a una sola, poi? Lasciatemi sul letto un foglio e una penna, forse vi risponderò. Le menzogne aiutano a vivere, dicono. Allora mentiamo spudoratamente, sapendo di mentire, facendo crollare capisaldi con la facilità di un compito in classe. Saremo meschini, non ci sentiremo di ammettere i nostri errori voluti, non divideremo i meriti di un pettegolezzo infondato, difendendoci con lo scudo e con la lancia, pessimi, in un mondo di mostri da combattere. Mi fermo a trangugiare un hamburger in Rue de la Republique ripensando a strofe mai così mie: ‘Lord bring on the night, wrap it all around here, let it hold me tight, soak me all that I bleed’. Non è la notte invocata da Jon Oliva, però, quella che cambia lo scenario. Una ragazza sale le scale, si viene a sedere vicino a me. L’istinto vale uno sguardo: i capelli pari fino alle spalle sono già un brivido. Dolcezza, addirittura, direi. Sarà un giorno in cui il destino concede una possibilità? Dall’altra parte della strada c’è un’insegna, una domanda stupida è la miccia per accendere la conversazione. Si chiama Valentine. Siamo coetanei. Strano, penso, ha ancora l’aria da ragazzina. Mi catturano i suoi sorrisi, come raggi di sole che squarciano le nubi dentro di me. Passiamo il pomeriggio assieme e il mio straniamento si fa largo nei suoi discorsi ironici. Il numero di telefono è qualcosa di più di un appiglio: è la punta di diamante di un assolo che mi sconvolge, è il classico pensiero ricorrente che non vuole andare via ed emoziona. Place Lyautey riluce all’imbrunire: padri e figli giocano una partita con un pallone di plastica, le mamme leggono il giornale sulle panchine e le bocce volano verso il boccino. Mi sento un pulcino bagnato, un vortice, un vulcano che erutta. Ritorno al cordone ombelicale, mi muto in falco, parlo con un gatto. Non ho mai concepito un sentimento simile: le corde della mia chitarra sono state pizzicate e ora suonano da sole una ninna-nanna per il bimbo nella culla. C’è l’eco di un sassofono che arriva dal quai. Faccio ritorno a casa. Stavolta credo proprio di essermi innamorato.
Da Quel che resta della memoria, capitolo III del diario della prigionia
Mi hanno detto tutti che questo brano rappresenta molto bene il libro e io ho imparato a imparare da ogni feedback, in particolare da quelli negativi. Non si finisce mai di migliorare, anche se facendo questo lavoro per passione o professione bisogna accettare con grande serenità di non poter piacere a tutti, o quasi a nessuno, in alcuni casi.
La sirena è risuonata nel buio spettrale delle quattro e venti del mattino; in un attimo non si è sentito più nessuno russare.
Sono entrati in due, urlando le solite frasi che ripetono sempre. Dietro a quel cappello calato sulla fronte, ho intravisto l’ufficiale più giovane nascondere una cicatrice vicino all’orecchio.
Per un attimo ho provato a fissarlo, ma mi sono vergognato di me stesso. Mi hanno cresciuto in un modo per il quale l’odio che questa gente cerca di dimostrare non avrà mai un vero significato.
Mi riempio i polmoni di aria gelida per affrontare un’altra lunga giornata del turno diurno. Il pensiero di rivedere un giorno Rina e tutti i miei fratelli mi sprona ad andare avanti, a non arrendermi a questa follia disumana.
La prima fila di alberi, ormai impoveriti di ogni foglia, è quella che ogni volta riceve il mio sguardo spento in attesa che tutti i compagni siano pronti per essere scortati attraverso i boschi. Oltre quel filo spinato ci deve essere la libertà, quella che può riservarci facilmente una pallottola in testa.
Camminiamo in fila indiana lungo il sentiero che segue il ruscello per circa un chilometro. Poi inizia il bosco: una distesa di tronchi a dismisura da una parte e dall’altra della collina, come una macchia marrone che cerca di resistere al bianco dominante.
Nella poca luce del crepuscolo compio il mio rito quotidiano di non pensare a quando dovrò fare il percorso in direzione opposta: le ore in fabbrica sono sempre riscaldate dalle nostre speranze migliori, e qualche volta ci regalano per sbaglio persino lo stesso cibo che danno agli operai tedeschi.
C’è un altro ragazzo di Parma, si chiama Salsi: era anche lui sul treno. Aveva avuto il riflesso di tentare di scappare, mi ha confessato, quando ci hanno asserragliato prima di salire sulle camionette.
Dopo la sua confidenza ci siamo guardati negli occhi per pochi secondi: nemmeno il fatto di parlare entrambi il parmigiano ci avrebbe potuto unire allo stesso modo.
Ecco che compaiono le case: piccole villette in mattoni, per una sola famiglia ricca, dove pure la luce è sempre spenta, in queste ore di passaggio, anche se sono svegli e ci guardano passare col viso incollato alla finestra.
Hanno paura dei bombardamenti: la guerra sta cambiando lato. Lo sentono, lo percepiscono: la gente comune è sempre più avanti con le sue sensazioni.
Vede e prevede, laddove gli eserciti seguono un piano improvvisato sulla carta. Abbiamo visto che fine ha fatto la splendida Italia fascista che tanti amavano!
Non siamo nemici: ci hanno messo gli uni contro gli altri.
E se tra qualche settimana doveste scappare voi, dalle vostre case? Magari quando tornerete chiederete informazioni al primo ufficiale che incontrerete, dicendo che abitate sulla Wüsterfelder Weg al numero cinquantasei…
Già da lontano, nel riverbero che annuncia le nostre dieci ore lavorative, riconosco il famigliare profilo delle ciminiere della fabbrica.
Anche per me, grazie a te!
Lorenzo
alla prossima!!
Intervista ad Adelaide Tamm “Una fame da lupi”

Adelaide con il suo libro “Una fame da lupi” racconta i disturbi del comportamento alimentare, ma anche del senso di inadeguatezza, di bassa autostima e tanto altro. Adelaide racconta in modo diretto, crudo la sua storia, una storia delicata e toccante, legata ai disagi alimentari e ai pregiudizi della società e dell’ambiente circostante.
Che cosa ti ha spinto a scrivere un romanzo autobiografico sulla bulimia e sul mobbing?
Inizialmente è nato come una specie di diario, un amico con il quale sfogarmi, poi ho realizzato che poteva essere d’aiuto a qualcuno nella mia stessa situazione. Poteva essere un aiuto per sentirsi meno sola/o e ho deciso di pubblicarlo.
Chi sono i Lupi?
Perché hai deciso di chiamarli così?
I Lupi rappresentano il fattore scatenante, il “problema” che ti spinge a cadere nella trappola dei disturbi del comportamento alimentare; ognuno ha i propri Lupi.
I Lupi continuavano a prenderti in giro e tu non riuscivi a reagire e hai trovato nel cibo, la “scorciatoia”, un rifugio. Qualsiasi cosa trovavi, la divoravi e poi finivi per vomitare. Che cosa era diventato per te il cibo? E che cosa è adesso? Quando hai capito che dovevi reagire e dire basta a questa situazione?
Erano vere e proprie vessazioni che mi terrorizzavano! Il cibo era diventato il mio pensiero fisso, nel bene e nel male! Da una parte era una consolazione che subito dopo, si trasformava a sua volta in nemico, mentre adesso è semplicemente cibo da cui trarne piacere, ma non in modo compulsivo.
Ho capito di dover dire basta a questa situazione quando, uscita dal ricovero, mi sono resa conto che le paure erano diventate le uniche emozioni.
Quali sono le conseguenze fisiche e mentali, che subisce una persona oggetto di mobbing sul lavoro?
Credo che ognuno di noi reagisca in modo diverso ad un mobbing, ma penso che tutti provano quel senso d’angoscia, di paura, come un congelamento fisico e mentale.
Ci puoi riassumere brevemente, che cosa è la bulimia?
La bulimia è una malattia! E’ quella sensazione di credere che il cibo possa riempiere il vuoto che hai dentro, quel pensiero fisso ed indomabile di dover ingurgitare qualunque cibo, per poi correre a vomitare, sperando di buttare fuori tutto, dolore compreso.
Come può un famigliare, amico o fidanzato, intervenire su una persona affetta da disturbi alimentari?
Essere seguiti da un’equipe medica specializzata in disturbi del comportamento alimentare è fondamentale; credo che quello che un familiare, amico/a o fidanzato/a possa fare è sicuramente indirizzare la persona malata a chiedere aiuto alle persone giuste e sostenerla in questo percorso.
A chi ti sei rivolta per curarti?
Quanto tempo hai impiegato per riuscire a sconfiggere la bulimia?
Sono stata ricoverata in un centro specializzato e poi, ho continuato il mio percorso da esterna. Non ricordo di preciso quanto tempo, ma quello che so, è che il percorso è lungo e faticoso ma ne vale la pena. Ricordatevi che si può sconfiggere, sempre.
Ogni giorno v vengono promosse campagne, volte a curare e prevenire i disturbi del comportamento alimentare, che sono sempre più frequenti a causa della società odierna, sempre più rigida ai canoni della perfezione; ciò che a mio avviso manca è la sensibilità, la capacità di immedesimarsi negli altri, senza giudicarli. Ma proprio da alcuni infermieri, dottori sei stata oggetto di comportamenti sgradevoli ed inumani. Come ti sei sentita? Reputi che la colpa di questi comportamenti, sia della società e di questi “modelli” perfetti?
La sensazione provata è stata orribile, ma credo che la colpa principale possa ricondursi principalmente alla quasi totale ignoranza che è ancora presente quando si parla di questa tematica, anche in ambiti come quelli medici.
Nel tuo libro hai trattato molti temi importanti, dal mobbing, alla bulimia ma anche la mancanza di autostima. L’autostima è il processo soggettivo e duraturo, che porta il soggetto a valutare e apprezzare sé stesso tramite l’autoapprovazione del proprio valore personale fondato su autopercezioni. Come si fa a crescere l’autostima? Che lavoro hai fatto su te stessa per migliorare l’autostima?
Purtroppo, non credo che esista una ricetta infallibile per far crescere l’autostima. Con me ha funzionato il riscoprire una passione e concentrarmi su quella.
Ti chiedo di riassumere il tuo libro con quattro parole chiave.
Guarigione, emozioni, passione e forza.
Quale era il messaggio che volevi trasmettere ai lettori?
Il darsi un’altra possibilità di essere felici.
Quanto tempo hai impiegato per scrivere il tuo libro? Ha avuto anche una funzione terapeutica per te, scriverlo?
Il libro è nato con quella funzione, per questo motivo l’ho scritto solo in dieci giorni.
Puoi scegliere un pezzo dal tuo libro a cui sei più affezionata (trascrivilo) e spiega che cosa ti fa provare.
Le notti erano calde, era giugno. Spesso non riuscivo a dormire […] uscivo sulla scala antincendio a guardare il panorama. Superga era sempre lì, imponente, maestosa, illuminata a giorno nel buio della collina. Le luci della città ai suoi piedi. L’aria calda mi accarezzava il viso. O Forse era malinconia. O forse era speranza. I pensieri volano, inizi a sognare. E ti stupisci di sapere ancora come si fa. Audrey Hepburn diceva “Le cose più belle, quelle che ti daranno felicità vera, arrivano in punta di piedi, in silenzio e attendono pazienti che tu le noti”, ed io stavo iniziando a sentire qualche passo leggero venire verso di me.
Rileggere queste parole mi fa riprovare quelle sensazioni di calma, silenzio, leggerezza e speranza che provavo inquel momento.
Ti ringrazio Adelaide per la disponibilità, per aver raccontato di un argomento così importante e di aver trasmesso con le tue parole il coraggio necessario per affrontare la bulimia.
Ringrazio anche tutti coloro che hanno seguito con interesse l’intervista di Adelaide, alla prossima intervista solo su I libri in mansarda!!
Intervista a Luca Giacherio “L’enigma della sfinge”

Luca Giacherio è un grande appassionato di romanzi gialli, soprattutto quelli a “camera chiusa”. Da grande amante dei gialli, il suo primo romanzo d’esordio è proprio un giallo: “L’enigma della sfinge”, andiamo a scoprire insieme qualcosa su questo libro.
Come è nata l’idea di scrivere “L’enigma della sfinge”?
Fin dalla mia infanzia ho sempre letto molto e sono sempre stato appassionato di gialli classici, di gialli deduttivi (quelli alla Agatha Christie per intenderci). In particolar modo, nel corso del tempo, mi sono appassionato ad un sottogenere specifico: la camera chiusa. Trattasi di quel genere di romanzo poliziesco in cui la vittima viene trovata assassinata in circostanze apparentemente impossibili, come una stanza chiusa ermeticamente dall’interno e inaccessibile, ma in cui l’assassino è comunque riuscito ad entrare per commettere l’omicidio e ad uscirne senza lasciare alcuna traccia.
La camera chiusa si può quindi definire il livello più complesso e stimolante del giallo classico, perché, prima ancora di indovinare l’identità dell’assassino, il lettore deve capire come è stato commesso quello che sembra a tutti gli effetti un delitto impossibile.
Inizialmente, infatti, si pensa spesso ad una soluzione sovrannaturale, poiché solo un fantasma potrebbe passare attraverso i muri di una stanza sigillata, senza lasciarvi traccia. Tuttavia la bravura del giallista sta proprio nel trovare una soluzione a questo enigma che sia perfettamente razionale e scientifica, quindi non paranormale, ma che sia anche intellettualmente onesta, quindi non basata su furbi trucchetti come passaggi segreti o marchingegni particolarmente complicati.
Naturalmente esistono diverse varianti di camere chiuse, alcune delle quali non prevedono una vera e propria stanza chiusa, ma situazioni ugualmente irrisolvibili.
Il mio scrittore di enigmi della camera chiusa preferito è John Dickson Carr. Lo ritengo un genio assoluto, spesso non celebrato quanto meriterebbe. Carr durante l’epoca d’oro del giallo, quindi a cavallo tra gli anni ’30 e ’40 del Novecento, ha scritto una quantità innumerevole di delitti impossibili, uno più sorprendente dell’altro.
E quindi, per rispondere alla domanda, dopo aver letto tutti questi romanzi gialli, sono semplicemente arrivato ad un punto della mia vita in cui leggerli non mi bastava più. Mi sono accorto che ogni volta che leggevo un nuovo giallo, mi ritrovavo ad immaginare enigmi che non fossero ancora stati proposti, con soluzioni a cui, incredibilmente, non si era ancora arrivati.
E così, per puro divertimento mio (ma, mi auguro, anche del lettore), ho voluto provare a scriverne uno di pungo mio e spero con un risultato soddisfacente.
Il tuo libro è ambientato in una bellissima Villa “Villa Cavalcanti”, in cui nove personaggi si ritrovano a soggiornare nella struttura.
Ci puoi un po’ descrivere questa villa e chi sono questi nove personaggi?
Villa Cavalcanti è un’antica villa nobiliare che apparteneva ai Marchesi Cavalcanti, i quali la usavano come residenza estiva. La suo collocazione spazio-temporale è volutamente poco definita (per motivi che si scopriranno durante la lettura del romanzo), ma si trova in un isolato contesto alpino, immersa tra boschi oscuri e monti innevati. Nell’epoca in cui è ambientata la vicenda (idealmente un nevoso inverno degli anni ’20 del Novecento), la villa è di proprietà dell’ultima discendente della famiglia, Elena Cavalcanti, che ha deciso di trasformarla in albergo. Ed è proprio questo albergo a costituire la totale unità spaziale in cui è ambientata la storia de “L’enigma della sfinge”, con i suoi interni sconfinati ed estremamente lussuosi, ma anche inquietanti e riccamente popolati da fantasmi provenienti dal passato.
Villa Cavalcanti è infatti enorme, si sviluppa su 4 piani (cantine comprese) e al suo interno ogni camera, ogni angolo, ogni anfratto ha una storia tale da voler raccontare misteriosi segreti, diventando essa stessa un personaggio. I suoi corridoi sono un labirinto all’interno del quale sembra che si aggiri uno spettro mostruoso, che disturberà il sonno dei protagonisti. È lo spettro della sfinge, che porterà con sé una serie di enigmi sinistri da risolvere.
Ma la villa è isolata dal resto del mondo a causa di un’abbondante nevicata, che ha danneggiato anche le line telefoniche. Quindi saranno i nove ospiti dell’albergo a dover risolvere in autonomia ogni mistero, ogni delitto e ogni enigma che si presenterà loro.
Ma conosciamo questi personaggi:
• Tullio Badalamenti, ispettore di polizia;
• Nemo Solaris, ispettore di polizia;
• Damiano Scalisi, commissario di polizia, marito di Elena Cavalcanti;
• Antonino Spaccarotella, agente di polizia;
• Giovan Battista Scaccabarozzi, medico;
• Contessa Aloisia Ferdinanda Malaspina, ospite di Villa Cavalcanti;
• Svetozar Vok, ospite di Villa Cavalcanti;
• Alfio, maggiordomo di Villa Cavalcanti;
• Mario, barista di Villa Cavalcanti.
In realtà, oltre a questi nove protagonisti, nel romanzo sono presenti altri due personaggi, che sono Elena Cavalcanti e il gatto Agamennone.
Elena Cavalcanti, purtroppo per lei, è la vittima dell’omicidio, perché all’inizio della narrazione viene trovata assassinata all’interno della Camera Rossa, una stanza chiusa dall’interno e assolutamente inaccessibile, che presenta quindi tutti gli stereotipi del genere.
Il gatto Agamennone invece è il pestifero gatto rosso della Contessa Malaspina ed è a tutti gli effetti un protagonista, perché ne combina di tutti i colori, compiendo azioni fondamentali anche ai fini della trama e incanalando i destini dei protagonisti verso direzioni inaspettate e sorprendenti. Per questo motivo si può quasi definire un deus ex machina, pur dotato di coda e di una folta peluria.
Elena Cavalcanti pone un enigma ai suoi ospiti: “Un viandante si trova a un bivio sorvegliato da una sfinge a due teste. Una strada porta alla vita l’altra alla morte… Solo la sfinge conosce questo segreto, ma una delle due teste dice solo il vero, mentre l’altra dice solo il falso. Il viandante naturalmente non sa nemmeno quale delle due teste dica la verità e quale no, ma può fare una sola domanda, a una sola delle due teste, per scoprire quale strada dovrà imboccare.
Quale domanda porrà il viandante, senza sapere se la testa a cui porgerà dirà il vero o il falso?”
Che cosa rappresenta la sfinge? Sei un appassionato di enigmi?
La sfinge è una delle figure più enigmatiche della storia dell’uomo, presente in modo trasversale in moltissime delle culture più antiche, come quella egizia, quella greca, quella mesopotamica e quella persiana. Il suo significato si perde nella notte dei tempi, ma solitamente aveva un ruolo ben preciso: il guardiano. Che si tratti del guardiano eterno delle tombe dei faraoni egizi, o del guardiano incorruttibile delle porte delle città nella mitologia greca, la sfinge è stata spesso custode di segreti e di misteri, capace di comunicare con gli eroi mortali solo attraverso enigmi, fra cui il più celebre è quello edipico.
Nel mio romanzo, dovendo affidare la custodia di misteri ed enigmi ad una figura fidata, mi è sembrato che il curriculum migliore fra tutti i candidati lo avesse proprio la sfinge, perché si trattava di un curriculum millenario e ricco di ottime referenze rilasciate da parte di molti personaggi storici e mitologici.
E infatti la figura della sfinge riveste un ruolo fondamentale nel mio romanzo, poiché è una figura ricorrente per tutto l’arco della narrazione e si presenterà ai protagonisti sotto diverse forme, fra cui anche quella bicefala, come nell’indovinello che hai citato. Guarda caso, anche questo indovinello accompagnerà i protagonisti per tutto il romanzo, andando di pari passo con la risoluzione del resto degli enigmi, fra cui anche quello principale, riguardante l’omicidio di Elena Cavalcanti. Nel momento in cui i protagonisti risolveranno l’indovinello, troveranno magicamente anche la soluzione del delitto. Quindi vi invito a giocare con me e con la sfinge e a risolvere l’indovinello per aiutare questo povero viandante, ma vi chiedo altresì di tenere la risposta per voi perché non vorrei mai che si avveri la stessa magia che avviene per i personaggi del romanzo e che, quindi, risolto l’indovinello riusciate a risolvere anche il resto degli enigmi.
Enigmi di cui, ovviamente, sono molto appassionato. E chi è appassionato di enigmi, non può che essere appassionato anche di gialli, perché quando si legge un giallo lo si fa principalmente per divertimento personale. È un po’ come fare un gioco della settimana enigmistica, solo con gli enigmi distribuiti fra le pagine del libro. E fra le pagine del libro vi è anche una vera e propria sfida, che il giallista lancia al lettore, il quale deve risolvere l’enigma prima della fine del romanzo.
Per riuscirci, il lettore dovrebbe basarsi sugli indizi empirici forniti dallo scrittore (che sono poi gli stessi indizi che utilizza anche l’investigatore protagonista). Tuttavia, mi sono mi sono accorto, leggendo vari gialli, che spesso si tende a risolvere il mistero non basandosi su questi indizi effettivi, ma fondando le proprie indagini su espedienti narrativi, espedienti letterari. Faccio un esempio per essere più chiaro. Se stiamo leggendo un romanzo giallo di 300 pagine e il probabile assassino viene presentato dopo sole 30 pagine, ci sembrerà ovvio che (mancando ancora 270 pagine) quello non sarà il vero assassino, ma sarà uno specchietto per le allodole. E questa è una deduzione a cui si arriva basandosi esclusivamente sugli espedienti letterari, maturati dalla nostra pregressa esperienza di aver letto altri gialli.
Ed è proprio ragionando su questo aspetto che ho voluto inserire ne “L’enigma della sfinge” una sottotrama metaletteraria che avesse due obiettivi. Il primo obiettivo è quello di fornire uno spunto di riflessione sull’onestà del metodo con cui noi lettori affrontiamo la sfida che ci viene lanciata dallo scrittore, cioè se stiamo conducendo le nostre indagini con metodo classico, basato sugli indizi, oppure se stiamo agendo in modo più furbo, basandoci sugli espedienti narrativi. In secondo luogo, lo scopo di questa sottotrama metaletteraria è anche quello di aumentare ulteriormente il divertimento, oltre che dello scrittore, spero anche del lettore, che non solo potrà giocare a risolvere l’enigma, ma potrà scegliere anche a che gioco giocare durante la sua risoluzione. Anche i due ispettori protagonisti, gli ispettori Tullio Badalamenti e Nemo Solaris, utilizzano i due metodi opposti (il primo classico, il secondo metaletterario). E ora tocca a voi, appassionati di enigmi: a che gioco volete giocare? Scegliete e divertiamoci tutti insieme!
Per il lettore sarà una vera sfida, sarà molto divertente cercare di risolvere l’enigma… Complimenti per la bellissima idea, ma anche per la trama del tuo bellissimo romanzo.
Elena Cavalcanti è stata ritrovata morta nella sua camera, definita “Camera Rossa”, ma con un mistero: la porta era chiusa a chiave all’interno, ma anche la finestra era chiusa.
Ci puoi descrivere un po’ la Camera Rossa?
La Camera Rossa è la stanza di Villa Cavalcanti all’interno della quale dormivano Elena e suo marito, il commissario Damiano Scalisi. Il suo nome deriva dal fatto che le pareti sono interamente rivestite da tessuti damascati e drappi rossi. Tale stanza ha un solo ingresso che dà sul corridoio principale del primo piano e, varcata la soglia, si entra direttamente nella camera da letto, senza alcun disimpegno. Nella stanza sono presenti pochi elementi di arredo, ma molto pregiati. Vi sono un letto matrimoniale, con una piccola panca ai suoi piedi e due comodini ai lati dello stesso, una poltrona con poggiapiedi posizionata tra il letto e un camino in pietra e infine un enorme armadio in stile Luigi Filippo, la cui unica anta a specchio viene utilizzata come se fosse parte di una toeletta, grazie a un piccolo scrittoio con cassetti posizionato davanti a esso. Dietro, invece, un comodo appendiabiti permette di cambiarsi in totale intimità grazie a un piccolo paravento che si allarga dai due lati dell’armadio. Infine, alle pareti sono appesi due dipinti che risulteranno significativi nel corso della narrazione e sono Scudo con testa di Medusa, di Caravaggio, e Edipo e la sfinge, di Gustave Moreau. Le uniche vie di accesso alla Camera Rossa sono quindi la porta d’ingresso e una finestra, che erano entrambe chiuse dall’interno nel momento in cui è stato trovato il cadavere di Elena. La canna fumaria del camino è minuscola e non può passare nulla ( anche perché il camino era acceso). Non esiste alcuna altra apertura e alcun passaggio segreto, quindi l’omicidio di Elena è un delitto apparentemente impossibile. E ci sono vari elementi per cui si è sicuri che si tratti indubbiamente di omicidio e non di suicidio.
La soluzione di questo enigma avrà qualcosa di sovrannaturale? Magari può c’entrare la fantomatica figura della sfinge, che dà il titolo al romanzo e che aleggia di notte fra i corridoi e gli ospiti di Villa Cavalcanti? Oppure esisterà una spiegazione perfettamente razionale a questo mistero? Lo si potrà scoprire solamente lèggente “L’enigma della sfinge.”
Eh sì, non vi resta che continuare a leggere questa bellissima intervista, per scoprire qualche dettaglio in più… e poi andare su Amazon ad acquistare il libro “L’enigma della sfinge”!!
Il tuo libro rappresenta alla perfezione il caso dell’ “omicidio a camera chiusa”. Sei un appassionato di gialli? Come sei riuscito a creare una storia così misteriosa e ben costruita?
Probabilmente il segreto di una storia ben costruita è proprio da ricercare nella mia passione per i romanzi gialli. Avendone letti moltissimi, penso ormai di aver assimilato i meccanismi tipici e i trucchi utilizzati dai giallisti. E avendone letti così tanti, soprattutto appartenenti al sottogenere della camera chiusa, posso anche capire quali sono gli aspetti che non mi piacciono o gli errori che non voglio commettere.
Per esempio, la cosa che meno sopporto e che non voglio assolutamente trovare in un romanzo giallo sono i buchi di trama, o le spiegazioni poco convincenti, dovute sempre a buchi di trama. E ritengo che il modo migliore per evitare questo problema sia quello di cominciare a scrivere il romanzo solamente nel momento in cui ogni singolo aspetto dell’intreccio poliziesco sia perfettamente delineato nella mente, perché nel finale del romanzo tutto deve quadrare alla perfezione. Quindi scrivere un giallo è un po’ come viaggiare su dei binari d’acciaio, dai quali non si può deviare per alcuna ragione. È necessario stare molto attenti a mantenere la coerenza complessiva della trama, perché ci deve essere una perfetta corrispondenza, ad esempio, tra gli orari dei fatti, gli spostamenti dei personaggi, le azioni della vittima e così via. Poi per quanto riguarda la creazione di piccole scene secondarie o poco influenti, naturalmente si ha più libertà, ma gli aspetti macroscopici della trama devono essere ben stabiliti dall’inizio alla fine.
Hai creato dei personaggi costruiti nei minimi dettagli, inserendo anche quel tocco di semplicità, divertimento, come per il Dottor Scaccabarozzi.
Ci puoi un po’ descrivere il dottore?
Uno degli elementi fondamentali del giallo deduttivo è la presenza di personaggi caratterialmente interessanti. Se poi questi personaggi sono costretti a trascorrere del tempo insieme, a stretto contatto tra loro in un ambiente chiuso, come avviene ne “L’enigma della sfinge”, acquisiscono una funzione fondamentale perché per vari motivi la trama dipende dalle loro azioni, che sono una conseguenza della loro caratterizzazione. Quindi, nel mio caso, era fondamentale creare dei personaggi con un grande potenziale d’azione, in grado di compiere qualcosa di imprevedibile in qualsiasi momento della narrazione. Fra quelli a cui è stato delegato il ruolo di imprevedibilità, spicca sicuramente il dottor Giovan Battista Scaccabarozzi, che è un esperto medico ed entomologo, molto preparato in entrambi i campi. Il dottor Scaccabarozzi, che si presenta come un simpatico e timido ometto di bassa statura, ha però un problema: è sia dislessico che balbuziente. E il suo cognome è funzionale alla sua caratterizzazione, perché non lo riesce mai a pronunciare correttamente, storpiandolo in tutti i modi che si possono immaginare. Per vincere la sua timidezza e la sua difficoltà di comunicazione, soprattutto in situazioni socialmente impegnative, è solito sciogliere la sua claudicante parlantina con qualche bicchierino di vino, che però deve dosare con grande attenzione per non sabotare le sue già carenti doti di comunicazione. Come potete immaginare, questo aspetto è un’autentica miccia, pronta costantemente a innescare un meccanismo tragicomico particolarmente esplosivo.
Nonostante tutti questi suoi problemi, il dottore avrà un ruolo fondamentale e spesso risolutivo in vari momenti della narrazione.
Ti chiedo di descrivere con quattro aggettivi: Elena Cavalcanti, l’ispettore Badalamenti, Nemo e il dottore Scaccabarozzi.
Elena Cavalcanti: accogliente
Ispettore Badalamenti: rassicurante
Nemo Solaris: visionario
Dottor Scaccabarozzi: imprevedibile.
Hai utilizzato il meccanismo della “camera chiusa”, proprio come nel libro di Agatha Christie in “Dieci piccoli indiani”.
Che cosa serve la camera chiusa?
Aiuta a far entrare in collisioni i personaggi al lettore?
La camera chiusa serve innanzitutto a creare mistero, perché il lettore si trova ad affrontare un delitto apparentemente impossibile. Poi la storia è interamente ambientata a Villa Cavalcanti, che costituisce un’unità di spazio totale, e questo è un pretesto fondamentale per far entrare i personaggi in collisione fra loro, o comunque per farli agire in modo inaspettato, creando scene sorprendenti. Ed effettivamente la strategia ha funzionato, perché ne “L’enigma della sfinge” si sono create situazioni molto originali, talvolta assurde.
Molti mi hanno chiesto come ho fatto a inventarmi certe scene, ma in realtà questo aspetto è stato più semplice del previsto e agevolato dall’ambientazione unitaria. Infatti, se gli aspetti macroscopici della trama del giallo dovevano essere già stabiliti dall’inizio alla fine (per fare in modo che tutto quadrasse alla perfezione), per le piccole scene secondarie avevo libertà assoluta e potevo dare maggiormente sfogo alla mia fantasia. E il fatto di far interagire i personaggi in uno spazio chiuso e ristretto è stato di grande aiuto, perché in qualche modo sono stati loro stessi a creare da soli certe scene.
Potrei spiegare questo aspetto nello stesso modo in cui lo ha spiegato Quentin Tarantino, quindi uno che di sceneggiatura se ne intende. In un’intervista, infatti, gli hanno chiesto come facesse a inventarsi le trame, talvolta assurde, dei suoi film. Tarantino ha risposto che non serve inventarsi una trama, ma il segreto è limitarsi a creare dei buoni personaggi, caratterizzandoli nel modo migliore possibile, per poi inserirli in un contesto credibile (o incredibile). A questo punto si lascia totale libertà ai personaggi creati, che prenderanno vita muovendosi con naturalezza all’interno della scena e interagendo fra loro a seconda della propria caratterizzazione, in modo tale da crearsi la trama da soli.
Può sembrare assurdo, ma devo dire che per varie scene è stato proprio così! Spesso non ho dovuto inventare nessun fatto particolare, ma ho dovuto semplicemente osservare dall’esterno quello che combinavano i personaggi, dopo averli dotati di libero arbitrio, e diventare esclusivamente cronista degli eventi. L’esempio migliore si ha nel Capitolo 6 del romanzo, intitolato “Il sognatore”. Questo capitolo l’ho scritto di getto, perché era uno di quei momenti in cui potevo avere maggiore libertà narrativa, e quando ho cominciato il capitolo non avevo la benché minima idea di come sarebbe finito, ma non avrei mai e poi mai immaginato il finale che poi trovate scritto. Dico questo perché alla fine del capitolo, gli eventi prendono una piega del tutto inaspettata, probabilmente anche esagerata. Il principale colpevole di quello che avviene è il gatto rosso, decisamente pestifero, di nome Agamennone.
Quando ho deciso di scrivere questo capitolo, ho riletto il finale e mi sono chiesto da dove avessi partorito una scena tanto assurda, che non avevo inizialmente previsto. Al momento non ho saputo dare una risposta, ma in seguito ho ascoltato l’intervista a Tarantino e ho capito quello che era avvenuto: i personaggi, rinchiusi in quell’ambiente, avevano preso il sopravvento sulla trama e su di me, creandosi la scena da soli.
E questa è la conferma del potenziale che nasce dall’ambiente un romanzo in un’unità spaziale chiusa, come Villa Cavalcanti, perché tutto diventa molto più stimolante e imprevedibile.
Adesso ti chiedo di riassumere il tuo libro con quattro parole chiave.
Mistero
Nevoso
Divertente
Sogno.
Quanto tempo hai impiegato per scrivere “L’enigma della sfinge”?
Dunque, l’idea mi ronzava in testa fin dai tempi dell’università. Chiaramente, non essendo il mio lavoro (nella vita sono farmacista), ci ho impiegato molto a scriverlo, perché mi ci cimentavo sporadicamente, una volta ogni tanto, anche a distanza di mesi. Direi che in totale probabilmente ci ho messo 5 anni, potendomici dedicare solamente di tanto in tanto. L’aspetto difficile di questa gestione è stato quello strettamente connesso al genere, perché, come ho spiegato, scrivere quando si scrive un giallo si viaggia su dei binari da cui non si può deviare; pertanto tutte le volte che riprendevo in mano il romanzo dovevo riprendere questi binari dal punto esatto in cui mi ero fermato e stare molto attento a mantenere la coerenza complessiva della trama.
Una volta che ho ultimato la stesura del romanzo, innanzitutto ne sono rimasto stupito, perché non ero così sicuro che sarei riuscito a portarlo a termine. E poi, arrivato a questo punto, mi sono detto: ma perché non pubblicarlo? E così nel Febbraio 2023 l’ho pubblicato, con mia grande soddisfazione.
Quale era il messaggio che volevi trasmettere ai lettori?
Più che un vero e proprio messaggio da trasmettere, quando ho scritto “L’enigma della sfinge” avevo un obiettivo, che era quello di divertire il lettore. E, come ho già detto, ogni scelta riguardante gli enigmi, gli indovinelli, le caratteristiche dei personaggi e i giochi metaletterari è finalizzata al raggiungimento di questo obiettivo.
Il fatto che questo obiettivo sia stato raggiunto o meno è un parere che spetta esclusivamente al pubblico. Sicuramente una condizione necessaria per divertire il proprio pubblico è anche quella di divertirsi in prima persona e io, da quel punto di vista, posso dire di essermi divertito molto.
Ma devo dire che scrivere non è stato solo divertente, ma ho provato anche un certo benessere durante la stesura del romanzo. Spesso si dice che scrivere sia in qualche modo terapeutico e che faccia bene all’anima. Non sono uno psicologo e quindi sicuramente non ho le conoscenze per affrontare questo argomento, però posso riportare quella che è stata la mia esperienza e devo dire che forse la scrittura ha effettivamente un aspetto terapeutico spirituale, perché i momenti in cui scrivevo il mio romanzo erano momenti di grande benessere. Infatti scrivendo si provano diverse emozioni, ci si rilassa, ci si isola e si concentra su se stessi, dando importanza alle proprie capacità, ai propri mezzi, e questo naturalmente può far aumentare l’autostima e la gratificazione personale. Ripeto, non sono uno psicologo però se mi chiedessero dove si possa ricercare questo benessere relativo alla scrittura, potrei ipotizzare che sia da ricercare nella componente giocosa dell’animo umano. Infatti, dovendo pensare ad un periodo di massimo benessere potremmo pensare a quando eravamo piccoli e si stava bene perché si giocava tutto il giorno. Ma se ripensiamo a come giocavamo da bambini, fondamentalmente ci accorgiamo che non facevamo altro che inventare delle storie. Quando giocavamo agli indiani e ai cowboy, oppure al cavaliere che deve sconfiggere il drago per salvare la principessa rinchiusa nella torre, di fatto inventavamo delle storie. Ed erano delle storie incredibili, con delle trame estremamente creative. Poi forse crescendo ci si dimentica un pochino di questo aspetto, di quanto ci piaceva inventare storie. Ma l’esigenza dell’uomo di narrare o di sentire delle storie rimane per sempre. Perché l’uomo senza storie non riesce a vivere, siano esse inventate o semplicemente ascoltate, ed è per questo che leggiamo dei libri o guardiamo dei film. Perché noi tutti oggi amiamo ancora i film di Sergio Leone, per esempio? Perché come li definiva lui stesso, i suoi film erano delle “favole per grandi” (che infatti si intitolavano “C’era una volta il West”, “C’era una volta in America”, ecc). Una volta, in un’intervista, chiesero a Sergio Leone chiesero perché facesse cinema. E lui rispose che il suo obiettivo principale non era quello di fare cinema, ma era semplicemente quello di raccontare delle storie, perché il suo intento era quello di soddisfare l’esigenza del pubblico di ascoltare e di osservare delle storie. E poi aggiunse che la più grande storia che potesse donare al suo pubblico era il mito e, infatti, Sergio Leone, coi suoi film, creava un mito.
Io ovviamente non sono Sergio Leone e non so costruire un mito, però ho cercato comunque di soddisfare quell’esigenza giocosa dell’animo umano di cui parlavo, regalandogli un gioco, un enigma da risolvere. E il genere letterario che si presta meglio a questa giocosità è proprio il giallo deduttivo, con i suoi enigmi da risolvere.
Quindi, non avevo nessun messaggio in particolare che volevo trasmettere al mio pubblico, ma spero che leggendo “L’enigma della sfinge” ogni adulto, che non ha più tempo di giocare e di inventare storie, possa ritrovare quella spensieratezza e quel benessere che aveva da piccolo, quando giocava.
Da lettore, che cosa non deve mai mancare in un libro giallo?
Sicuramente la sfida tra lo scrittore e il lettore. Questo perché, come dicevo, nel giallo classico il giallista crea un enigma da risolvere e, se è onesto, dissemina una quantità sufficiente di indizi, nel corso del suo romanzo, per portare il lettore al suo stesso livello di conoscenza, e quindi metterlo nelle condizioni di poter risolvere l’enigma. Però allo stesso tempo l’enigma non deve essere troppo semplice, perché altrimenti non c’è gusto, soprattutto per il lettore esperto di gialli. Quindi il giallo deve essere onesto, ma non banale e il giallista deve essere bravo nel trovare questo delicato equilibrio.
Anche il lettore, ovviamente, deve agire onestamente. Per esempio, la strategia di utilizzare gli espedienti narrativi di cui parlavo prima non è del tutto onesta. Tuttavia ritengo che sia ampiamente legittima, poiché anche alcuni grandi giallisti non sono sempre stati onesti. Faccio un esempio, che spero non sia blasfemo. Agatha Christie, in un suo famoso romanzo, utilizza un trucco non del tutto onesto. Naturalmente non è una mia opinione, ma è supportata da argomentazioni convincenti tenute anche da illustri critici. Non entro nel dettaglio perché non voglio rovinare la lettura di questo determinato romanzo, ma chi lo ha letto probabilmente avrà capito a quale mi riferisco.
Quindi se anche la regina del giallo si permette, ogni tanto, di essere un pochino furba, direi che può tranquillamente farlo anche il lettore.
Ma al di là dell’onestà intellettuale o della furbizia, tutto è legittimo e accettabile, ma senza questa sfida metaletteraria non può esserci divertimento.
Divertimento che forse talvolta manca in molti thriller moderni.
Se, infatti, nel giallo classico la tensione narrativa viene creata con l’enigma, in molti thriller viene creata facendo immedesimare il lettore nel protagonista, con cui solitamente si cerca di creare empatia attraverso un processo di umanizzazione, che però il più delle volte si incentra su caratteristiche di dolore e sofferenza, dovute ad un passato tormentato del protagonista. E questo va chiaramente ad appesantire l’atmosfera, che si discosta dai toni confortevoli del giallo deduttivo e si avvicina alle sensazioni disturbanti dei thriller, come avviene tipicamente in molti thriller scandinavi, ad esempio. Se la lettura di un giallo deduttivo è solitamente rassicurante, perché si risolve un problema, l’esperienza di lettura di molti thriller è invece disturbante. Non dico che non sia un bene, anzi! Anche a me piace ritrovare quel tipo di sensazioni, di tanto in tanto, ma non era quello che volevo ricreare nel mio romanzo.
Poi nel giallo classico può anche esserci un’atmosfera lugubre e inquietante, ma è un altro tipo di atmosfera, perché è giocosa anche quella. Fa parte di quella creazione di un universo accattivante e frizzante, ma sempre confortevole, che tiene il lettore incollato alle pagine con trepidazione.
Quindi se vogliamo scrivere un giallo e non un thriller, dobbiamo prestare molta attenzione a questo triplice nucleo narrativo, che da lettore ritrovo durante la lettura: la sfida, il gioco e l’enigma.
Grazie mille Luca, per i preziosi consigli!!
Quale è il personaggio a cui sei più affezionato? O che ti rappresenta?
Ci sono diversi personaggi a cui sono affezionato, ma se ne dovessi scegliere uno probabilmente opterei per l’agente Antonino Spaccarotella. A questo personaggio è delegata buona parte della vena comica del romanzo, perché l’agente Spaccarotella, come può anticipare il suo cognome (quasi onomatopeico) è un inguaribile pasticcione, per non dire un cataclisma ambulante. Spero non mi rappresenti più di tanto, perché sarei anche io un personaggio catastrofico. Sicuramente in molte situazioni sono anche io un po’ maldestro, ma colgo l’occasione per rivelare una curiosità: Spaccarotella è l’unico personaggio per la cui caratterizzazione mi sono ispirato ad una persona realmente vivente. Si tratta di un mio simpaticissimo amico, di cui ovviamente non faccio il nome, che è un pochino pasticcione. Spero mi possa perdonare per questa dedica poco lusinghiera, ma ne approfitto per sottolineare il fatto che le sue caratteristiche sono state esasperate all’inverosimile per ottenere un personaggio così esagerato come l’agente Spaccarotella.
Molti mi hanno chiesto come ho fatto a inventarmi questi personaggi, con dei nomi così assurdi. Ebbene, per Spaccarotella è andata così, ho scelto un nome parlante, un nomen omen, che anticipasse le azioni e le caratteristiche del personaggio.
Ed è un strategia che ho utilizzato anche per altri personaggi, come il già citato Scaccabarozzi, ma anche l’ispettore Nemo Solaris.
Per altri personaggi invece ho voluto creare un nome che fosse un omaggio a qualche mio modello, come per esempio l’ispettore Tullio Badalamenti, che è un omaggio ad Angelo Badalamenti, il compositore delle colonne sonore delle opere di David Lynch; infatti, Lynch è una delle mie più grandi fonti di ispirazione, al punto che “L’enigma della sfinge” si apre con una sua citazione tratta da Twin Peaks.
Un altro personaggio-omaggio (possiamo coniare il neologismo persomaggio?) è Svetozar Vok e anche riguardo a lui devo rivelarvi una curiosità: è l’unico personaggio che non ho inventato io, ma che ho preso da un altro romanzo. Anche Vok, insieme a Spaccarotella, è uno dei miei personaggi preferiti e si tratta del personaggio più losco e tenebroso del romanzo. Questo inquietante cecoslovacco, ospite di Villa Cavalcanti, dall’aspetto molto sinistro e lugubre, in realtà è stato creato da Hake Talbot, che è stato un illusionista e avvocato statunitense con la passione dei gialli. Hake Talbot, nel 1944, ha scritto un giallo bellissimo, dal titolo “L’orlo dell’abisso”, che naturalmente è una camera chiusa, di livello eccellente, fra l’altro. Dico solo che lo stesso John Dickson Carr, il più grande esperto di camere chiuse, aveva definito questo romanzo come la migliore camera chiusa che avesse mai letto. Ebbene, fra i personaggi di questo libro c’è proprio Svetozar Vok, che ha le stesse identiche caratteristiche del mio Svetozar Vok. Faccio anche uno spoiler, tanto il romanzo è praticamente irreperibile in Italia: ne “L’orlo dell’abisso” Svetozar Vok muore. Tuttavia, questo personaggio mi piaceva così tanto che mi sembrava un’ingiustizia fargli vivere una sola avventura. E quindi ho deciso di omaggiare Hake Talbot resuscitando Vok e facendogli vivere una nuova avventura, perché se lo meritava. La scrittura permette di fare anche questo, avere il potere di riportare in vita personaggi morti in altre opere. Anche questo fa parte del divertimento.
Stai scrivendo un altro libro?
Se sì, ci puoi anticipare qualcosa?
Per il momento non sto pensando ad un sequel e non sto pensando di scrivere nulla, in generale. Però non mi pongo nessun limite, nel senso che questo libro l’ho scritto quasi per caso, quasi come se fosse un gioco. E siccome la voglia di giocare vien leggendo, non escludo che un domani mi possa nascere nuovamente la voglia di scrivere un altro romanzo, sempre per gioco. Quello che mancherà sempre è il tempo per sedermi a scriverlo, quindi in questo caso non so davvero quanti anni potrei metterci ancora. Però non fasciamoci la testa, potrebbe capitare in modo del tutto naturale. E non pongo limiti nemmeno al genere letterario. Potrebbe trattarsi anche di qualcosa di completamente diverso da un giallo.
Resto in attesa di una tua nuova idea, sai quanto mi piace il tuo stile di scrittura e non vedo l’ora di poter leggere un altro tuo libro.
Puoi scegliere un pezzo dal tuo libro a cui sei più affezionato (trascrivilo), e spiega che cosa ti fa provare.
“Nemo aprì gli occhi. I fantasmi della realtà invadevano la sua mente infiltrandosi come il mercurio nelle crepe. Stridendo orribilmente con gli artigli avvinghiati al cranio, la sua anima era scossa dagli ululati lancinanti di quei mostri che lo popolavano e che adesso volevano uscire in un tumulto frastornante. Tutta quella luce insopportabile gli sibilava nel cervello e lo straziava senza pietà come fredde lame di ghiaccio che lo laceravano riducendolo in brandelli di carne. Nemo non aveva pace. La sua anima e le sue membra erano condannate a un dolore senza fine. Ma quello che viveva ora era reale e tutte le cose reali, prima o poi, finiscono.
Si guardò attorno aggrappandosi ai lembi del lenzuolo e del sogno che ormai stava fuggendo da qualche altra parte. Sul comodino era sparpagliato ciò che restava dell’intruglio che quella notte lo aveva accompagnato fra le braccia di Morfeo: un bicchiere annerito, un cucchiaio, un fiammifero bruciacchiato, qualche zolletta di zucchero, una bottiglia di assenzio e un flacone di laudano da cinquanta millilitri. Si era fatto prendere la mano e adesso non riusciva più ad alzarsi dal letto, che lo risucchiava in quel misto di freddo e dolore in cui ultimamente restava avvolto fin troppo spesso.”
Questo brano si trova all’inizio dell’undicesimo capitolo del libro ed è uno dei momenti realmente disturbanti che ho voluto inserire all’interno de “L’enigma della sfinge”. Uno di quei rarissimi momenti in cui l’atmosfera confortevole tipica del giallo deduttivo viene rimpiazzata da una situazione di tormento e angoscia interiore di uno dei protagonisti, sconfinando in qualcosa di diverso.
Fra queste righe è descritto il disagio di un uomo con problemi di tossicodipendenza, ma questo disagio non è solo dovuto alla sofferenza fisica, ma è soprattutto dovuto a quello sconforto che Nemo Solaris prova nel momento in cui si trova in bilico tra il mondo reale e quello che possiamo definire “mondo dei sogni”, con il quale si connette nel momento in cui è sotto l’effetto del laudano o di altre droghe. Non è un caso che Nemo Solaris si faccia carico di buona parte della sottotrama metaletteraria di cui ho parlato prima, perché è l’unico in grado di sospettare di essere in un mondo finto, quindi all’interno di un romanzo, ed è l’unico a conoscere lo sconforto che nasce dalla consapevolezza di vacillare in un equilibrio precario mentre si cammina sulla sottile linea di confine fra i due mondi. È lo sconforto che proveremmo tutti noi maturando questo dubbio cartesiano. Ed è uno dei temi conduttori non solo de “L’enigma della sfinge”, ma anche della maggior parte delle opere di David Lynch, che come ho detto è una delle mie principali fonti di ispirazione e uno degli autori che ha maggiormente influenzato il mio modo di vedere il mondo.
L’aspetto della poetica di Lynch che più di ogni altro ha attirato e stimolato la mia curiosità è proprio l’indagine di questa sottile linea di confine che esiste tra il mondo reale e quello dei sogni, dove però non si parla unicamente di sogno, ma in generale del confine tra realtà e finzione o tra realtà e apparenza o tra realtà e ricordi. E in un’opera di finzione come la mia, in cui c’è una sottotrama metaletteraria che gioca proprio si questo sottile confine, non potevo non lasciarmi influenzare dal mio regista preferito.
Possiamo quindi chiudere con la citazione di apertura del mio romanzo “L’enigma della sfinge”, tratta proprio dalla serie “Twin Peaks” di David Lynch, in modo da creare uno schema circolare col romanzo stesso.
Siamo come il sognatore
che sogna e vive dentro al sogno.
Ma chi è il sognatore?
Spetta al lettore la soluzione di questo ennesimo enigma.
Ti ringrazio Luca Giacherio, per aver accettato di essere intervistato per iscritto. E’ stato un vero onore e piacere averti come secondo ospite per la mia rubrica.
Intervista a Martina Tozzi “Per la brughiera”

Martina Tozzi torna ad incantare i suoi lettori, con il libro “Per la brughiera” con la casa editrice Nua Edizioni. “La brughiera” è una biografia romanzata delle sorelle Brontë: Charlotte, Emily e Anne. Il lettore si ritroverà a vivere nella canonica, immersa nella bellezza della brughiera inglese, tra gli affetti famigliari profondi e la passione per la scrittura.
“Per la brughiera” è il tuo secondo romanzo, una bellissima biografia dedicata alle sorelle Brontë. Che
cosa ti lega alle sorelle Brontë? Come mai hai deciso di scrivere una loro biografia romanzata?
Amo le sorelle Brontë, e sono sempre stata affascinata da queste tre giovani che avevano in comune la
passione per la scrittura, la capacità di creare atmosfere meravigliose e che sono riuscite a trovare un posto
in un mondo prevalentemente maschile, come era quello della letteratura nell’Ottocento. Per qualche
ragione, le ho sempre sentite molto vicine a me, e quindi ho avvertito il desiderio di raccontare la loro vita.
Che è una vita fatta di sogni, speranze e illusioni, di riconoscimenti ma anche di cadute, ferite, lacrime.
Principalmente è una storia d’amore, ed è una bella storia.
Perché le sorelle Brontë si chiamano così? Di quanti membri è composta la famiglia Brontë?
Patrick, il padre delle sorelle Brontë, era un ministro della chiesa anglicana originario dell’Irlanda. Il suo
cognome, probabilmente Brunty, era scritto diversamente, a seconda di chi lo trascriveva, in vari registri,
fino a che Patrick non stabilì una volta per tutte che l’ortografia corretta del cognome dovesse essere
Brontë, probabilmente in omaggio a Lord Nelson, duca di Bronte (Patrick amava i grandi personaggi storici,
i condottieri, passione che trasmise ai figli). Patrick sposò Maria Branwell, ed ebbero cinque figlie e un figlio
prima che lei si ammalasse e morisse. I bambini si chiamavano Maria, Elizabeth, Charlotte, Branwell, Emily
Jane e Anne.
Il libro è ambientato nel 1821 a Haworth, sommerso dalla maestosa brughiera. Ci puoi descrivere questo luogo?
Haworth è un paesino dello Yorkshire, nell’Inghilterra del nord, circondato da una sterminata e selvaggia
brughiera. Era un luogo ventoso, e la canonica, dove crebbero i giovani Brontë, era piena di spifferi. La loro
abitazione era alla fine del villaggio, e Charlotte, Emily, Anne e Branwell amavano passeggiare per la natura,
sovrastati da un cielo sterminato. Camminando, immaginavano i loro mondi interiori, ed erano tutti molto
legati alla loro casa.
Patrick Brontë è un giovane reverendo, che deve occuparsi dei sei figli piccoli da solo, perché la moglie Maria è morta. Ci puoi descrivere un po’ Patrick? Come si sente a dover crescere da solo le sue figlie? Che cosa lo preoccupa?
Patrick aveva trovato in Maria l’amore, e pensava di trascorrere con lei molti anni felici. Quando la moglie
morì, Patrick si sentì solo e spaventato. Non sapeva proprio cosa fare con cinque figlie femmine da
sistemare! A quei tempi, il destino più ovvio per una donna era il matrimonio, ma Patrick sapeva che,
essendo povero, non avrebbe potuto offrire a tutte le sue figlie delle doti adeguate, e quindi era probabile
che alcune di loro sarebbero rimaste senza marito. Per questo, per il loro bene, decise di farle studiare, per
dare loro la possibilità di provvedere a sé stesse anche senza un marito quando lui fosse morto e non
avesse più potuto prendersi cura di loro.
La zia Branwell dalla morte della sorella, decide di trasferirsi nella brughiera, per cercare di ricoprire il ruolo di madre, ma anche di educatrice.
Che rapporto si instaura con le piccole Brontë e con Branwell?
La zia Branwell si prende cura dei bambini come una madre. Non è una donna molto propensa a
dimostrazioni fisiche d’affetto, ma ama sinceramente i suoi nipotini, per i quali è disposta a qualsiasi
sacrificio. Non esita a fornire a Charlotte ed Emily il denaro che le chiedono per studiare in Belgio. Ha un
debole per Anne, la piccola di casa, che ricambia con slancio il suo affetto.
Dove sono nate le sorelle Brontë? Che cosa rappresenta per loro la brughiera?
Le sorelle sono nate nello Yorkshire, e per loro la brughiera è casa. Ogni volta che si devono allontanare ne
avvertono una fortissima nostalgia, e il tema della lontananza e dello struggimento al ricordo della propria
casa e delle persone amate torna più volte nel romanzo.
Le sorelle Brontë rappresentano il capolavoro letterario, ma sono anche l’inizio della letteratura
femminista. Che cosa hanno modificato nella letteratura?
Puoi confrontare la letteratura dell’epoca con quella di oggi?
Charlotte, Emily e Anne sono donne che riescono a emergere in un mondo fatto di uomini, ed è una
grandissima conquista. Nei loro libri risuona una voce forte, chiara e risoluta. È voce di donna che si rivolge
all’intera umanità, ed è qualcosa di rivoluzionario. Oggi ci sono molte donne che scrivono, ed è una cosa
che trovo meravigliosa, anche se, purtroppo, troppe volte le autrici sono ancora guardate con un po’ di
scetticismo, soprattutto se i loro romanzi parlano d’amore. Ma abbiamo trovato la nostra voce, ed è bello
che risuoni sempre più forte.
Ci puoi descrivere con 4 aggettivi le sorelle Brontë e Branwell? A chi assomigli di più? Che sensazione hai provato, quando ti sei immedesimata in queste grandi donne?
Charlotte: responsabile, indipendente, sognatrice, appassionata
Emily: selvatica, sensibile, profonda, indomita
Anne: paziente, dolce, coraggiosa, determinata
Branwell: sognatore, ambizioso, fragile, entusiasta
Credo di avere qualcosa in comune con ciascuna delle sorelle Brontë, e anche con Branwell. Ed è stato
bellissimo, per me, immedesimarmi in ognuno di loro, credo che scrivere questo libro mi abbia permesso di
sentirli più vicini che mai e, se possibile, adesso li amo ancora di più.
Ognuno di loro si divertiva a scrivere delle storie durante il periodo dell’infanzia, era il loro modo di
giocare e di condividere la passione per la scrittura. Che cosa rappresenta per loro la scrittura?
La scrittura è la principale occupazione dei piccoli Brontë. Permette loro di vivere mille vite, di provare sentimenti di ogni tipo, di vagare in terre sconosciute, di essere di volta in volta buoni o cattivi, spregiudicati o giudiziosi, di essere i padroni del mondo. Scrivere per loro è una cosa molto seria, non è un passatempo. Scrivere è una magia.
Cito dal tuo libro: “Charlotte e Branwell venivano percorsi dallo stesso identico pensiero: anche loro
possedevano quel demone. Anche loro erano dei geni, nel loro sangue correva la scrittura, come una maledizione e una benedizione insieme: dovevano scrivere, comporre, dovevano mettersi nella sedia, intingere la penna d’oca nell’inchiostro e poi passarla sulla carta, e creare parole, frasi, mondi e sentimenti nuovi. E, se come Byron sentivano quella fame, come lui avrebbero conquistato la fama, per sempre.” Charlotte e Branwell sono molto simili, hanno sempre quel desiderio di emergere, di diventare famosi con la loro scrittura. Anche se sono molto simili, per la società, sono diversi perché a quel tempo le donne che si dedicavano alla scrittura non erano ben viste. Quale era l’opinione della società sulle donne? Come descriveresti il rapporto tra Charlotte e Branwell?
Purtroppo era un’epoca storica che non era molto favorevole alle donne con delle ambizioni. L’idea
comune era che le donne non fossero pari all’uomo sotto nessun aspetto, che non potessero produrre delle
opere letterarie di valore simile a quello delle opere prodotte dagli uomini, e non solo. Si credeva che fosse
meglio che una donna non perseguisse la carriera letteraria per il suo stesso benessere, era meglio che non
pensasse troppo. A un certo punto del romanzo, Charlotte scrive al celebre letterato Robert Southey per
avere un parere sulle proprie capacità e ricevere consiglio su come perseguire la carriera letteraria. Southey
le risponde così: I sogni a occhi aperti in cui avete l’abitudine di indulgere potrebbero indurvi in uno stato
mentale di turbamento, e tutte le comuni cose del mondo potrebbero apparirvi piatte e poco attraenti, e voi
diventereste a esse inadatta senza diventare adatta per nient’altro. La letteratura non può essere
l’occupazione della vita di una donna, e non deve esserlo. Questa era l’opinione generale.
Il rapporto tra Charlotte e Branwell è molto stretto proprio perché sono così simili, condividono gli stessi
sogni e discutono per ore delle loro passioni. Quando crescono, si allontanano, e Charlotte soffre molto per
i problemi che affliggono Branwell.
Che educazione ha ricevuto Branwell? E le sorelle Brontë? Perché per ricevere un’educazione adeguata, le donne dovevano recarsi in collegio?
Era piuttosto insolito che una donna ottocentesca venisse istruita in maniera approfondita, e Patrick Brontë
si mostra molto moderno nell’insistere per far studiare le proprie figlie, proprio perché sa che potrebbero
non esserci molte possibilità matrimoniali per loro. Branwell, invece, viene educato personalmente da
Patrick che, essendo un uomo, pensa di essere in grado di istruire un futuro gentiluomo. Riceve anche delle
lezioni di disegno, attività per la quale tutti i giovani Brontë sono molto portati.
Maria, Elizabeth, Emily e Charlotte sono “costrette” a stare nel collegio, perché in quella società la donna doveva trovare marito, ma anche essere una buona donna di casa. Quale è il clima che si respira in un collegio? Quale, tra le sorelle Brontë, ha più nostalgia di casa?
Emily quando è lontana dalla brughiera si sente smarrita, è quella che di più desidera tornare a casa, ma
tutte le sorelle Brontë, in realtà, sentono nostalgia del luogo che hanno lasciato. Cowan Bridge, il collegio
dove vengono mandate, è insalubre, e molte bambine si ammalano mentre sono lì.
Anne è la più piccola delle sorelle Brontë, rimane a casa insieme al fratello e ai suoi bellissimi animali.
Quale è il legame che ha con i propri animali?
Anne ha un legame molto stretto con i suoi animali, e questo si può intravedere anche nei suoi romanzi,
dove gli animali sono sempre descritti con affetto e simpatia, e dove si presta spesso attenzione alla
maniera in cui i vari personaggi si rapportano a essi. Crescendo, le verrà fatto dono di Flossy, un piccolo
Spaniel che diventerà un suo fedele amico. Parlare di Flossy mi ha creato qualche difficoltà perché non è chiaro se fosse un maschio o una femmina.
Dai più è ritenuto una femmina perché Charlotte nelle sue lettere racconta di lui usando pronomi femminili,
ma in un breve appunto del 1845 Anne scrive di Flossy “he is now lying on the sofa,” al maschile. Alla fine
ho deciso di rappresentarlo come un maschio, perché immagino che Anne fosse più affidabile di Charlotte
al riguardo, e anche mia nonna a volte parla del mio gatto Filippo al femminile, perché è piccolino, e Flossy
doveva apparire molto più “femminile” dell’altro cane di famiglia, il grosso e muscoloso Keeper.
Oltre alla sorelle Brontë, un personaggio molto importante anche se posto ai margini, è la domestica
Tabby. Tabby è molto disponibile, riservata, ma sostiene ogni membro della famiglia. Ci puoi descrivere un po’ Tabby? Che legame si crea con la famiglia Brontë?
Tabby è una donna dello Yorkshire, saggia e di buon cuore, che ama i piccoli Brontë e adora raccontare loro
le leggende della brughiera, leggende che i fratelli ascoltano con molto interesse. Per i bambini Tabby è a
tutti gli effetti un membro della famiglia, tanto che, quando a causa di una caduta sul ghiaccio si ferisce a
una gamba, le tre sorelle insistono con il padre per prendersene cura personalmente. È un aneddoto che
trovo indicativo del rapporto di affetto che si era creato tra di loro e Tabby.
Ma proprio quando sono in collegio Mary e in seguito, Elizabeth, si ammalano a causa delle condizioni igieniche. Mary è la sorella maggiore, una buona cristiana, ma questo non basta perché Mary ed Elizabeth muoiono. Quale è il dolore che prova Patrick?
Patrick prova un immenso dolore, ed è anche vittima del senso di colpa. Diventa ancora più protettivo con i
figli che gli restano perché non vuole correre il rischio di perderli.
Per i veri appassionati delle sorelle Brontë, è possibile visitare la loro casa. In quale cittadina inglese si
trova? Ci sei mai stata?
La canonica dove ha vissuto la famiglia Brontë, a Haworth, nello Yorkshire, ospita oggi il Brontë Parsonage
Museum, interamente dedicato a Charlotte, Emily, Anne e Branwell, che espone molti oggetti che sono
appartenuti alla famiglia: vestiti, giocattoli, disegni e manoscritti. È un luogo che con la fantasia ho visitato
centinaia di volte, ma purtroppo non ci sono mai stata fisicamente. Spero di farlo in futuro, è la meta dei
miei sogni!
Charlotte, Emily e Anne sono rimaste le uniche donne in famiglia, ritornano a casa e possono
riassaporare la bellezza della natura, la bellezza di essere di nuovo a casa. Ed è proprio a casa, che
iniziano a dedicare molto tempo alla scrittura. E anche se devono fare i conti con una società maschilista, la loro passione non si fermerà. Che cosa decidono di fare?
Per molto tempo, solo Charlotte pensa alla scrittura come una maniera di guadagnarsi da vivere.
Inizialmente, le sorelle credono che il loro futuro sarà quello delle istitutrici, ma non è il destino che fa per
loro. Si sentono prigioniere, e tutto quello che desiderano è la libertà. Per questo, sempre guidate da
Charlotte, decidono di tentare la via della pubblicazione delle loro storie.
Le sorelle Brontë decidono di pubblicare le loro opere sotto lo pseudonimo Currer (Charlotte), Ellis
(Emily) e Acton (Anne) Bell. La loro scelta non fu casuale, scelsero dei nomi che potevano essere sia maschili, che femminili per cercare di sconfiggere i pregiudizi nei confronti delle donne, che si dedicavano alla scrittura. Una volta pubblicate le loro opere, quali erano le opinioni, le critiche dei giornali e delle persone?
Jane Eyre fu un immediato successo, che fu ristampato già a pochi mesi dall’uscita. Tutti lo volevano
leggere, tutti erano affascinati da questa protagonista innovativa, una donna forte, intelligente, ma bruttina
e povera. Era sconvolgente, e lo stile così vivido che non si poteva non parteggiare per lei. Cime
tempestose, invece, suscitò reazioni contrastanti. Molti recensori criticarono la crudezza della storia e, pur
apprezzandone lo stile, si lamentarono della mancanza di personaggi positivi, e il libro venne definito
brutale e rozzo. Il romanzo di Anne, Agnes Grey, schiacciato dalle reazioni suscitate dagli altri due, passò più
inosservato.
Charlotte Brontë (con lo pseudonimo) nel 1847, ha pubblicato un vero e proprio capolavoro “Jane Eyre”.
Di che cosa parla?
È la storia di una giovane donna povera e senza amici, che però resta sempre cosciente del proprio valore e
della propria dignità. È una storia d’amore, certo, quello di Jane per il signor Rochester, ma è anche una
storia di crescita personale e coraggio, e contiene alcune tra le pagine più forti della letteratura.
Uno dei romanzi più famosi è “Cime tempestose” di Emily Brontë, dal tono poetico e drammatico. Di che cosa parla?
Cime tempestose è un romanzo selvaggio e aspro, come i suoi personaggi. È una storia che parla di passioni
irrefrenabili, sentimenti smisurati, di emozioni che non possono essere arginate. Lo stile di Emily è molto
evocativo, e questo rende il romanzo un vero capolavoro.
Che rapporto c’è tra scrittura, istruzione e società?
L’istruzione è fondamentale per ogni bambino, perché dà le basi per poter costruire il proprio futuro e
anche per scrivere. Senza istruzione non c’è scrittura, e una società che impedisce a una parte della
popolazione di ricevere una giusta istruzione (come accade ancora oggi alle ragazze in alcune zone del
mondo, purtroppo) è una società ingiusta.
Come è trattato il tema dell’amore dalle sorelle Brontë?
Le sorelle Brontë parlano d’amore nelle loro storie ancor prima di sperimentare trasporto romantico per
qualcuno. Lo conoscono dai libri e lo vivono grazie alla loro grande fantasia. Nel mio romanzo, ho cercato di
avvolgerle completamente nell’amore: amore per la loro famiglia, amore che provano l’una per l’altra,
amore per la natura e per la scrittura. Le loro vite grondano amore.
Come è nata la tua passione per le sorelle Brontë? Cosa rende unici i loro romanzi?
La mia passione per le sorelle Brontë è nata con Jane Eyre, che ho letto da adolescente e che ho amato da
subito. Mi sono innamorata delle atmosfere del romanzo, del burbero signor Rochester con la sua
parlantina incontenibile e della protagonista, Jane, povera, piccola e oscura, ma indomita, coraggiosa e
capace di restare sempre fedele a sé stessa. Poi l’amore è proseguito con Cime tempestose, una storia di passioni forti e di vendetta che mi ha completamente rapito. Infine, ho scoperto Anne, prima con Agnes
Grey e poi con la signora di Wildfell Hall, e l’amore era ormai inarrestabile. Mi affascinava la storia di queste
tre sorelle, figlie di un parroco e vissute in un’anonima e sperduta canonica nella brughiera, che erano
capaci di scrivere con una furia e una passione cui è impossibile restare indifferenti (almeno, lo è per me).
Così ho letto più che ho potuto su di loro, ho divorato ogni loro scritto, ho immaginato di essere loro. Credo
che sia corretto affermare che con le loro opere hanno lasciato un segno indelebile nella storia della
letteratura inglese. Ed è proprio la loro penna a rendere unici i loro romanzi: se esiste il genio, in
letteratura, loro ne erano dotate in abbondanza.
So che non è facile, ma c’è un solo romanzo delle sorelle Brontë che custodisci nel cuore? E che ti senti di consigliare?
Che domanda difficile! Amo talmente le storie che ci hanno regalato che trovo quasi impossibile sceglierne
uno solo. Ma, dovendo dare una risposta, direi che il posto più speciale nel mio cuore appartiene a Jane
Eyre, anche per i ricordi personali che sono legati a questo romanzo. È una cosa bella della letteratura, no?,
che i libri non abbiano valore solo per sé stessi, ma anche per i ricordi che suscitano in chi li ha letti.
E’ una cosa bellissima, la letteratura e i libri ci permettono di comprendere il mondo, di approfondire, riflettere e immaginare. Secondo un recente studio, chi legge molto, vive due anni di più, perché i libri giovano alla mente e al corpo.
Quando hai iniziato a scrivere “Per la brughiera”, quale era il tuo obiettivo e il messaggio che volevi
trasmettere ai lettori? Come ti sei immaginata il lettore “medio” per il tuo libro?
Il mio obiettivo nello scrivere Per la brughiera era raccontare le sorelle Brontë, mostrandole il più possibile
simili a come sono state davvero. Ho letto, e studiato, e preso appunti, e spero di averne tracciato un buon
ritratto. Non avevo nessun messaggio particolare in mente, quello che speravo di trasmettere era il senso di
famiglia, di appartenenza alla brughiera, e il potere immenso dell’immaginazione e della scrittura.
Se devo essere sincera, non mi sono immaginata un lettore “medio” per il mio romanzo. La prima persona
che legge tutti i miei scritti è sempre mia sorella, e quando scrivo è a lei che penso. Ma mi piace sognare
che Per la brughiera riesca a viaggiare fino a raggiungere lettrici e lettori di ogni tipo, tutti diversi, e che lasci
un buon ricordo a ciascuno di loro.
Martina, se dovessi immaginarti di incontrare una delle sorelle Brontë, o anche il fratello sensibile
Branwell, che cosa gli diresti?
Se incontrassi Charlotte, Emily, Anne e Branwell credo che sarei troppo emozionata per parlare! E credo
che la sola cosa che potrei dire a tutti loro è grazie. Grazie perché anche ora, che sono morti da così tanti
anni, tramite le parole che loro hanno scritto lettrici e lettori di tutto il mondo hanno qualcosa su cui
sognare, un mondo dove rifugiarsi la sera, per scappare dal tedio e dalle fatiche della realtà.
È stato più difficile reperire informazioni su Mary Shelley, la protagonista del tuo primo libro “Il nido segreto” o delle sorelle Brontë?
Credo che più o meno sia stato ugualmente difficile. Sia le sorelle Brontë che Mary Shelley sono personaggi
molto conosciuti, e ci sono teorie di ogni tipo su di loro. Ho cercato di essere il più obiettiva possibile
mentre sceglievo il materiale da utilizzare per la stesura del romanzo.
Nel libro “Per la brughiera” tratti molti temi: la morte, il dolore, i legami famigliari, la bellezza, la natura, l’arte, la società e la donna. Quale è il tema, che è stato più difficile scrivere? E perché?
Sono tutti temi che sento molto vicini, sui quali leggo tanto e dei quali mi piace scrivere.
Che cosa rappresenta la morte per le sorelle Brontë?
Le sorelle Brontë hanno una profonda fede religiosa, perciò per loro la morte non è solo la fine della vita,
ma l’inizio di qualcos’altro. Alla morte di Emily, Charlotte scrive: “La perdita è nostra, non di Emily (…) non
chiederò perché Emily ci sia stata strappata nel pieno del nostro affetto, perché sia stata sradicata nel fiore
degli anni, nella promessa di ciò che avrebbe potuto realizzare con i suoi talenti, non chiedo perché la sua
intera esistenza ora giaccia calpestata come un campo di frumento ancora verde, come un albero rigoglioso
colpito alle radici. Dirò soltanto: dolce è il riposo dopo la fatica, dolce la calma dopo la tempesta, e senza
tregua andrò ripetendo che ora ciò è quanto sa Emily.”
Che cosa rappresentano la natura e gli animali per Anne e Emily?
Per Emily e Anne il rapporto con gli animali è fondamentale. Sono entrambe molto legate ai loro cani,
Keeper (e Grasper) e Flossy, e amano tutte le creature della brughiera. Per loro, per Emily soprattutto, la
contemplazione della natura è un modo di comunicare con l’infinito, di sentirsi parte di qualcosa di più
grande.
Ti chiedo di riassumere “Per la brughiera” con 4 parole chiave.
Immaginazione, famiglia, brughiera, amore.
Quanto tempo hai impiegato per scrivere “Per la brughiera?”
Ci ho messo più o meno un’estate, ma poi ho riletto e ho ricontrollato le informazioni, perché sono molto
pignola quando scrivo, e ovviamente prima c’è stata tutta la parte di studio e lettura, che è durata per mesi.
Puoi scegliere un pezzo dal tuo libro a cui sei più affezionata (trascrivilo) e spiega che cosa ti fa provare.
“Ma il mondo interiore che avevano creato non li abbandonava mai, e li univa in una maniera magica.
Potevano anche abitare in una sperduta canonica dello Yorkshire, ma con la loro fantasia i fratelli
dominavano il mondo.”
È una frase che amo perché descrive il potere dell’immaginazione, che è un potere inarrestabile e divino.
Ti ringrazio Martina per disponibilità, la tua profonda gentilezza e dolcezza, sei una donna meravigliosa, proprio come le sorelle Brontë. Continua a deliziarci con la tua scrittura classica, pulita e armoniosa, noi ti aspettiamo con la tua prossima opera. Grazie ancora per aver risposto alle domande, un abbraccio.
Grazie a te, Deborah, per la tua gentilezza.
Vi ringrazio per aver letto la bellissima intervista con Martina Tozzi!!
Quale è il libro delle sorelle Brontë, che vi piace di più?
Fatemelo sapere nei commenti!!
Intervista a Martina Tozzi “Il nido segreto”

Il libro è ispirato alla vita della scrittrice Mary W. Shelley e alla sua storia d’amore con Percy B.Shelley. Martina Tozzi è nata a Siena, dove vive con i suoi gatti. Scrive da quando era bambina, con uno stile classico, armonico e profondo, riuscendo a coinvolgere e far innamorare il lettore.
Oltre al libro “Il nido segreto”, ha pubblicato “L’ultima strega” per HarperCollins, e recentemente è uscito il libro “Per la brughiera”, con la casa editrice Nua Edizioni, che racconta in modo romanzato la vita delle sorelle Brontë.
Il nido segreto racconta la vita dell’importante scrittrice Mary Shelley, famosa per il suo libro “Frankenstein”, che ha dato inizio al genere gotico in Inghilterra. Come mai hai deciso di scrivere un libro dedicato a quest’importante donna? Come sei riuscita ad immedesimarti in lei?
Da sempre sono una grandissima amante della letteratura inglese, e fin dalla prima volta che ho letto Frankenstein sono stata conquistata dalla modernità e dalla profondità di questa opera. L’amore per questo romanzo mi ha spinto a indagare sulla vita di Mary Shelley, e sono stata immediatamente attratta dalla sua forza e dal suo coraggio. Con il passare degli anni ho continuato a coltivare una grande ammirazione per lei, fino a che non ho sentito dentro di me l’esigenza di raccontare la sua storia. E non solo la sua: l’altra protagonista del romanzo è Fanny, sua sorella, della quale si sa purtroppo molto poco e alla quale desideravo restituire una voce. Per scrivere il mio libro, quindi, ho deciso di immergermi in due personalità molto differenti, perché Mary e Fanny hanno modi opposti di affrontare la vita, ma non è stato difficile. Mi piace immedesimarmi in persone diverse da me, è una delle cose che adoro della scrittura. Ho provato a mettermi da parte e far parlare loro.
Descriviamo un po’ il clima che si respirava tra le strade di Londra dell’800.
Londra è una città che esercita su di me un fascino incredibile, e nel XIX secolo era il centro del mondo. La città più popolosa della terra, un brulicare di nuove idee e di innovazioni. Si respirava un clima di cambiamento e di fiducia, sembrava che all’uomo niente fosse precluso. C’era un grande interesse nella scienza e nelle scoperte e il mondo intellettuale fremeva di novità. Al contempo, però, la società era rigidamente suddivisa in classi e veniva data un’importanza estrema all’apparenza e al rispetto di certe regole sociali. Per le donne, poi, non era un’epoca felice perché ancora molte cose erano precluse al nostro sesso. Era un’epoca di contraddizioni e di speranze, in un certo senso non molto diversa dalla nostra.
Che rapporto ha Mary con le sue sorelle Fanny e Jane (Claire)? E che rapporto hanno con il loro padre Godwin?
Nonostante la scomparsa della madre, Mary trascorre un’infanzia abbastanza serena. Suo padre, Godwin, è per lei il centro del mondo, una specie di dio che può dispensare giudizi e lodi, e la sua opinione sarà centrale per lei nel corso di tutta la sua vita. Godwin era un uomo severo, rigido e non molto affettuoso, eppure ha sempre amato sua figlia Mary. Con le sorelle, Mary ha rapporti molto diversi: Fanny, più grande di lei di tre anni e sempre assennata e gentile, è considerata tropporesponsabile e seria per essere sua complice, mentre Jane, che è poco più giovane di lei ed è spavalda e birichina, diventa una compagna di gioco e di avventure.
Fanny, invece, non ha lo stesso legame con Godwin: affamata d’affetto e d’attenzioni e desiderosa di non creare problemi, si fa sempre più piccola per non disturbare, e soffre per la parzialità dell’uomo, che le preferisce Mary, vivace, curiosa, coraggiosa e sua figlia biologica, mentre Fanny era in realtà figlia di Mary Wollstonecraft e di un capitano americano che aveva amato prima di Godwin.
Non possiamo non parlare della mamma di Mary, ovvero Mary Wollstonecraft, una delle più importanti filosofe femministe del suo periodo.
Quanto è stata importante e rivoluzionaria questa donna?
Che cosa ha in comune con sua figlia Mary?
Mary Wollstonecraft è stata una donna straordinaria, dalle idee rivoluzionarie, una filosofa dalla mente libera. La ammiro tantissimo, e tantissimo la ammirava Mary, che è cresciuta osservando il suo ritratto appeso nello studio del padre.
Tante sono le cose che le due donne hanno in comune, prima fra tutte l’audacia. Mary Wollstonecraft fu una persona forte e determinata, che visse una vita molto libera e compì scelte reputate poco adatte al suo sesso (come vivere e viaggiare da sola). Come lei, Mary fu indipendente e capace di compiere scelte audaci, sfidando la società del tempo.
Godwin ben presto, capisce di non riuscire ad educare e gestire le sue figlie, decide di sposarsi con Mary Jane.
Che rapporto ha Mary Jane con Mary, Fanny e Jane?
Mary Jane è molto parziale nel rapporto con le tre ragazze. Jane è sua figlia, e per lei questo non è un dettaglio di poco conto. Sarà sempre lei, la sua principale preoccupazione. Con le due figlie di Godwin, Fanny e Jane, sarà sempre distaccata e, nel caso di Mary, ostile. Non le piace proprio questa ragazzina vivace e brillante, che Godwin preferisce sfacciatamente a tutti gli altri.
Quando, più grandi, Mary e Jane scapperanno insieme a Shelley, la preoccupazione di Mary Jane sarà sempre e soltanto la reputazione di sua figlia, e considererà Mary largamente responsabile per questa scelta che lei non approva.
Fanny, invece, è totalmente diversa da Mary, talmente silenziosa e propensa a sacrificarsi per gli altri che Mary Jane fa ricadere sempre più responsabilità su di lei, che non si lamenta mai. La matrigna, però, non riesce ad amarla e neppure a vederla davvero. Non si accorge della sua fame di affetto, non si rende conto che sta sfiorendo sotto i suoi occhi.
Quale educazione hanno ricevuto Mary, Fanny e Jane?
All’epoca, non era comune impartire un’educazione approfondita alle ragazze, e infatti le tre sorelle non frequentano la scuola. Solo Mary passa un certo periodo in collegio, lontano da Londra, per motivi di salute più che di studio. Ma, a casa, le tre giovani hanno a disposizione una ricca biblioteca e possono partecipare alle serate con gli ospiti della famiglia. Godwin, filosofo dalle idee innovative, frequenta gli intellettuali dell’epoca, e spesso alle sue cene si discute di scienza, letteratura, politica e filosofia. Nascoste dietro al divano, perché Mary Jane le ha mandate a letto, Mary e Jane ascoltano i versi delle “Rime dell’antico marinaio” di Coleridge, declamate dallo stesso autore, e sempre durante una serata in famiglia, ancora bambina, Mary ascolta il dottor Anthony Carlisle parlare degli esperimenti condotti dallo scienziato italiano Giovanni Aldini, che cercava di riportare in vita i morti con l’elettricità. Essere esposta a queste conversazioni fin dall’infanzia, allena Mary a riflettere con la sua mente, a porsi delle domande.
Descrivi Mary, Fanny e Jane con quattro aggettivi.
Mary è coraggiosa, determinata, sognatrice e ribelle.
Fanny è generosa, timida, sensibile e insicura.
Jane è vivace, anticonformista, audace e inquieta.
Ma nelle loro vite, all’improvviso arriva un affascinante e tormentato ragazzo, il poeta Percy Shelley. Shelley è un profondo estimatore di Godwin e di sua moglie Mary Wollstonecraft, per questo decide di farsi carico di tutte le loro spese economiche, finché il filosofo sarà in vita. Ci puoi descrivere un po’ Shelley? Che rapporto si crea con Mary?
Shelley è un sognatore, un idealista, un uomo dai grandi slanci e desideroso di cambiare il mondo. Quando Mary lo incontra, si innamora immediatamente di lui, anche se lei ha solo sedici anni e lui (che di anni na ha ventuno), è sposato e ha già una figlia, Ianthe. Con il suo carisma, Shelley, conquisa anche Fanny e Jane, e la vita della famiglia Godwin non sarà più la stessa.
Mary e Shelley sfidano la morale e il buon costume del tempo, oltre che il padre di Mary che si rivela contrario a quest’unione. Ma a loro non importa il parere di nessuno, decidono di scappare insieme a Jane, per poter continuare a vivere il loro amore. I due si sposteranno continuamente dall’Inghilterra alla Francia, ma anche in Svizzera e in Italia, alla continua ricerca del denaro, della felicità e di un posto dove poter mettere le radici. Quanto era grande il sentimento che provavano? Quanti pregiudizi devono affrontare in ogni parte del mondo? Che cosa imparano dai loro viaggi?
La società e le famiglie non accettano l’unione tra Shelley e Mary, ma loro scelgono il disprezzo degli altri pur di stare insieme. La loro decisione comporta molte rinunce, e ciò che più ferisce Mary è la caparbia ostilità da parte di suo padre, che eppure teoricamente si era sempre detto contrario al matrimonio e al conformismo. Dover vivere da soli contro il resto del mondo rende ancora più forte il sentimento che lega Mary e Shelley. Purtroppo anche Harriet, la prima moglie di Shelley, è vittima di questi eventi, perché la società ostracizza perfino lei che non ha alcuna responsabilità sulla scelta del marito di vivere con un’altra. In quanto donna separata, Harriet subisce il rifiuto della gente, e non riesce a sostenerne il peso.
Nei loro viaggi, Mary e Shelley imparano a confrontarsi con culture diverse e diversi modi di vivere. Amano immergersi in paesaggi naturali maestosi come quello alpino e sono affascinati dalla luminosità dell’Italia. Approfondiscono anche la letteratura e la storia del nostro paese.
Nel tuo libro, riesci a portare il lettore nell’800 e tratti molti temi in modo magistrale. Ad iniziare dalle relazioni umane, grazie alle minuziose descrizioni psicologiche dei personaggi che hai inserito all’interno del libro. Come sei riuscita a sentire i loro sentimenti e a descriverli? Come mai hai deciso di inserire questo aspetto?
Ti ringrazio tanto per queste parole. Quando ho deciso di scrivere la vita di Mary, più che a far conoscere la sua storia ero interessata a esplorare in ogni aspetto la sua personalità. Volevo presentare al lettore Mary Shelley umanamente, come la persona che è stata. A volte, leggendo le biografie di coloro che sono vissuti molto tempo prima di noi, si tende a non rendersi davvero conto che sono state persone reali, capaci di provare rabbia, indignazione, amore, tenerezza e tutte le altre sensazioni che accompagnano la nostra esistenza. Volevo che Mary Shelley fosse viva, vera, e ho cercato di comprendere più che ho potuto la sua personalità e le sue emozioni. Sicuramente si tratta di una rappresentazione filtrata attraverso la mia sensibilità, perché per una scrittrice o uno scrittore è impossibile eclissarsi completamente, ma ho fatto del mio meglio per essere il più fedele possibile alla Mary Shelley che è esistita davvero. Spero di essere stata in grado di tracciare un ritratto in cui lei, almeno in parte, riuscirebbe a riconoscersi.
Un altro tema molto importante è la continua lotta contro il dolore. Come si può superare e metabolizzare un dolore così forte e traumatico? Te cosa faresti?
Che domanda complicata! Purtroppo la vita di Mary è stata costellata da tragedie terribili, ma con grande forza lei ha sempre trovato dentro di sé la capacità di reagire. Quando Shelley muore, Mary vede solo nell’amore per il proprio figlio lo scopo per andare avanti, e con il passare del tempo riesce a rifugiarsi nella scrittura per trovare consolazione. Credo che l’immaginazione sia fondamentale per superare i dolori e le angosce. Ma, personalmente, non so come avrei affrontato i lutti e le perdite che hanno afflitto la vita di Mary.
Cito dal tuo libro: “Il vero amore non si mostra mai alla luce del giorno, ma corteggia le radure segrete.” Cosa è l’amore per Mary? Che cosa è l’amore per te?
Quando Mary incontra Shelley per la prima volta ha una concezione dell’amore decisamente romantica e poetica, è ancora molto giovane e si lascia travolgere da questo sentimento. Ma, nel corso del romanzo, Mary cresce, e insieme a lei matura anche la sua idea di amore, e così il suo attaccamento a Shelley si trasforma e si fa più solido e necessario. E anche se ci sono incomprensioni e parole non dette, il suo sentimento per lui continua ad accrescersi sempre.
Per me, amare significa prendersi cura e sorridere senza un motivo. L’amore per me è libertà.
Esordisci con “Il nido segreto”, ma non lo si direbbe perché la tua opera è unica e si nota la passione che hai nei confronti di Mary Shelley, perché ogni parola trasuda d’amore e di ammirazione. Quando è nata la passione per la scrittura?
La mia passione per la scrittura è iniziata appena ho imparato a scrivere! Da quando mi ricordo, ho sempre desiderato diventare una scrittrice, e anzi mi sono sempre considerata una scrittrice. Scrivere mi rende felice, mi fa stare bene, non potrei mai rinunciarvi. Scrivo continuamente: appunti, racconti, diari; al computer o a mano; non importa, ma scrivo!
Adesso ti chiedo di descrivere il tuo libro con tre parole chiave.
Libertà, poesia e amore.
Quale era il messaggio che volevi trasmettere ai lettori?
Quello che mi affascina maggiormente della vita di Mary Shelley è la sua libertà interiore, la sua capacità di non conformarsi alle aspettative degli altri, anche quando è doloroso per lei, per restare fedele a se stessa e ai suoi sogni, ed era questo che avevo in mente durante la stesura del romanzo. Ma una delle cose che amo maggiormente della letteratura è che nel momento in cui un libro è concluso e dato al mondo non è più di chi l’ha scritto, ma di chi lo legge, e che esistono tanti messaggi diversi quanti sono i lettori. Ciascuno interpreta la storia in maniera differente, e spero che chi ha letto “Il nido segreto” vi abbia trovato qualcosa di cui aveva bisogno.
Quanto tempo hai impiegato per scrivere “Il nido segreto”?
Non molto, in realtà. È stata molto più lunga la parte che ha preceduto la stesura, ovvero lo studio dei testi che mi ha permesso di entrare più a fondo possibile nella vita di Mary e di tutti gli altri personaggi. Quando ho iniziato a scrivere sono stata abbastanza rapida, era una storia che non vedevo l’ora di raccontare.
Quale è il personaggio a cui sei più affezionata? Quale è il personaggio con cui hai avuto più difficoltà durante la fase di scrittura?
Il personaggio cui sono più affezionata è Fanny. Ho scritto di lei con molta tenerezza, avrei voluto abbracciarla e dirle che anche lei è speciale. Mi rendono sempre molto felice i messaggi dei lettori che mi rivelano di averla amata, perché sento che il mio romanzo è riuscito a darle un po’ dell’affetto che in tutta la vita ha sempre desiderato.
Non c’è un personaggio in particolare che mi ha messo in difficoltà, ma se devo fare un nome dico Lord Byron. Perché era una personalità unica, fuori dalle righe, sgargiante e tormentata, ma tutto il mio libro è filtrato dagli occhi di Mary e ho dovuto scegliere cosa inserire e cosa lasciare fuori. Ci sarebbero state molte altre cose da raccontare su di lui!
Il 24 Novembre è uscito il tuo secondo romanzo dal titolo “Per la brughiera” (di cui parleremo nella prossima intervista), sempre con la casa editrice Nua Edizioni. Che rapporto hai con la Nua Edizioni? Quale romanzo è stato più difficile scrivere?
Nua Edizioni è una casa editrice meravigliosa. Le donne che fanno parte del team sono tutte persone fantastiche, il catalogo presenta dei romanzi molto interessanti e sono veramente orgogliosa di poter pubblicare per loro. Le edizioni sono estremamente curate e le copertine sono splendide! Sono molto grata alla mia editor, Fiorella, per la sua gentilezza e a Barbara Cinelli per aver creduto in me.
Non ho avuto particolari difficoltà nella stesura di nessuno dei due romanzi. Sono storie che in un certo senso fanno parte di me, ho studiato molto prima di mettermi a scrivere e quando ho iniziato è stato abbastanza semplice andare avanti fino alla fine.
Stai scrivendo un altro libro? Se sì ci puoi anticipare qualcosa?
Scrivere è la mia vita, sto sempre scrivendo qualcosa o studiando per qualcosa che scriverò. E, se tutto va bene, ci dovrebbe essere un’altra sorpresa il prossimo anno. La mia attenzione è sempre rivolta alle donne del passato, ma stavolta ho deciso di fare un’incursione nel mondo della pittura. Spero che le mie lettrici e i miei lettori saranno contenti!
Non vedo l’ora di leggere il tuo prossimo romanzo, sono sicura che sarà meraviglioso.
Adesso ti chiedo, di scegliere un pezzo dal tuo libro “Il nido segreto”, un pezzo a cui sei più affezionata e spiega che cosa ti fa provare.
La notte prima della partenza, Mary si svegliò che era ancora buio, e si accorse che Shelley non era nel letto accanto a lei. Alzò la testa e vide la sua sagoma alla finestra, appena visibile contro il mare nero e l’oscurità della notte.
Si alzò dal letto e scivolò accanto a lui.
«Non dormi, Shelley? Vieni a coricarti.»
«La notte è così bella, Mary,» rispose lui voltandosi e scostandole una ciocca dal viso.
«Ti ha svegliato un altro incubo?»
«Non stanotte. Solo… i pensieri. Oggi è l’anniversario del nostro amore, o meglio, lo è stato prima della mezzanotte.»
Mary sorrise. «Come dimenticarlo?»
«È passato così tanto tempo da quando ci siamo dichiarati i nostri sentimenti all’ombra dei salici, vicino alla tomba di tua madre. Sembra un’altra vita.»
Ho avuto in mente questa scena fin da quando ho iniziato a scrivere il romanzo, e mi suscita una grande malinconia e una grande tenerezza. Ho provato a raccontare la storia di un amore che subisce i colpi del destino e del tempo e che eppure continua a brillare. Spero di esserci riuscita.
Ti ringrazio Martina, per aver accettato di essere intervistata, è un vero onore poter aprire insieme a te, questa rubrica.
Grazie a te, Deborah! Per me è stato un onore rispondere alle tue domande.
Qui trovi la recensione del libro “Il nido segreto”:
https://deborahcarraro97.com/2023/04/12/il-nido-segreto-di-martina-tozzi/
Spero che l’intervista di Martina Tozzi, ti sia piaciuta e ti ringrazio per averla letta tutta.
Un abbraccio da Deborah!!
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